di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
La regìa di Robert Carsen per il Don Giovanni scaligero che aveva inaugurato quasi sei anni fa la stagione 2011-2012 ha dimostrato ancora la sua validità con la ripresa che ha avuto luogo sabato scorso di fronte a un pubblico tutto sommato numeroso nonostante il periodo di ponti e vacanze. Si trattava e si tratta oggi di una regìa che riesce davvero a esplorare in maniera intelligente e spesso nuova tanti aspetti di un’opera che tutti conoscono o credono di conoscere in ogni dettaglio ma che – come sempre accade nel caso dei capolavori – si presta a ulteriori letture sempre stimolanti sia dal punto di vista dell’allestimento che da quello puramente musicale. Rimane oggi, dell’esperimento di Carsen, soprattutto la validità dell’idea conduttrice (quella di un protagonista che tira le fila di tutta la vicenda, ivi compreso il tragico finale) declinata in mille situazioni particolari che illuminano in maniera anche divertente i “tic” dei singoli personaggi, soprattutto quelli femminili che sono sempre caratterizzati da una scoperta preferenza verso il seduttore, qui impunito come non mai.
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Meno impressionante risulta invece oggi la condizione al contorno di questa regìa, la scenografia di Michael Levine che tira in causa una rappresentazione non nuova di teatro al quadrato, con la ripetizione all’infinito delle scene che richiamano la struttura della Scala, i siparietti incombenti che sembrano riprodotti più a partire dalle immagini standard dei programmi di sala che dalle strutture architettoniche del teatro stesso, gli sfondi a specchio che trasformano la sala e il pubblico in un protagonista alternativo della scena. Tutti espedienti che mostrano di più i segni del tempo e danno luogo a una serie di dejà-vu non sempre del tutto piacevoli. L’idea, quindi, di Carsen, è in grado di sfidare assolutamente il trascorrere del tempo. Meno la sua realizzazione, che sembra imprescindibile dall’attuale effetto scenico voluto da Levine.
Del tutto differente è invece il discorso sul piano musicale. La concertazione ieratica e talvolta estrema di Barenboim è oggi sostituita da una direzione di routine di Paavo Järvi, direttore che ammicca alla ricerca filologica ma è spesso generico e inconsistente e si rivela purtroppo molto dannoso nei confronti della compagnia di canto: quando un personaggio appare in difficoltà negli attacchi e nella tenuta del tempo si può ancora dubitare della sua personale imperizia; quando i casi si replicano nei confronti di quasi tutta la compagnia di canto ecco che la responsabilità risiede palesemente in chi dal podio dovrebbe governare al meglio l’insieme. Insieme che ha registrato per fortuna in primo luogo la presenza di una Donna Elvira praticamente perfetta (Annett Fritsch) e di una Donn’Anna anch’essa di grande spessore (Hanna-Elisabeth Müller). In entrambi i casi l’aspetto vocale era talmente curato e in linea con i grandi modelli del passato da permettere ad entrambe una dedizione totale alle spesso proibitive richieste del regista. Poco distanti per merito il Leporello di Luca Pisaroni – interprete eccellente del proprio ruolo secondo la visione di Carsen e voce del tutto appropriata nel sostenere tale caratterizzazione – a fianco del giustamente stereotipato (ma qui anche partecipe) Don Ottavio di Bernard Richter e della coppia Zerlina-Masetto di Giulia Semenzato e Mattia Olivieri.
Sul Don Giovanni di Thomas Hampson cali il sipario e il giudizio, con tutto il rispetto per la carriera e l’arte interpretativa di chi è stato considerato in passato uno dei maggiori baritoni in circolazione. Di Tomasz Konieczny si può solo dire che è stato Commendatore più nel volume della voce che nella qualità della stessa, e che ci ha rammentato l’aggettivo “mugghiante” utilizzato dal Celletti nei confronti di un importante baritono italiano dei tempi d’oro. Successo buono ma non eccessivo, a riprova che qualche dubbio sull’insieme è serpeggiato anche tra il pubblico. Quest’ultimo era vistosamente privo dei loggionisti-sicari, pronti a manifestare sguaiatamente il proprio dissenso solamente quando si tratta di pur minime imprecisioni nel repertorio ottocentesco italiano. Tutto ciò che esula da quello è per definizione esente da critiche, anche in presenza di pecche molto vistose.
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