di Attilio Piovano foto © Lorenzo Di Nozzi/Stresa Festival
Coraggiosa apertura, nel segno del Novecento storico, per la 56° edizione dello Stresa Festival, la sera di mercoledì 23 agosto 2017: ovviamente presso la consueta sede del Palazzo dei Congressi. Non solo: apertura sul versante del teatro del Novecento con l’intramontabile e geniale Histoire du soldat stravinskijana in versione che definire semi scenica è senza dubbio riduttivo. Vi hanno dato vita infatti gli ottimi e affiatati strumentisti dello Stresa Festival Ensemble, diretti con scrupolosa precisione da Duncan Ward – gesto nitido ed efficace, comunicativa e verve giusta – ma soprattutto vi hanno dato vita la voce recitante di lusso di Valter Malosti e gli scatenatissimi danzatori e attori di Sanpapié (in scena Giuseppe Brancaccio, Sofia Casprini, Luciano Nuzzolese, Martina Monaco, Saverio Bari e Tony Contartese), per la regìa accurata e fantasiosa di Lara Guidetti che ha firmato altresì le coreografie. E si è trattato di una produzione espressamente commissionata dallo Stresa Festival che ha riscosso indubitabile successo. Una bella scommessa; e allora ecco che la vicenda del povero soldato, gabbato e preso in giro crudamente dal diavolo non meno che dal destino baro è emersa in tutta la sua tragica vis: grazie ai movimenti coreografici, certo, all’incisiva esecuzione musicale ed alle variegate corde di recitazione di Malosti stesso e dei validi attori (Contartese e Bari, veri e propri ‘doppi’ dei personaggi danzanti). Ritmo serrato, incalzante, non un attimo di tregua e alla fine il diavolo che ahinoi ha la meglio, lasciandoci come sempre con l’amaro in bocca dacché avevamo fatto il tifo ancora una volta per il soldato, avevamo parteggiato per lui, ci eravamo identificati e quando ormai pareva essersi preso gioco del diavolo ecco l’irreparabile.
Un plauso speciale, tra gli strumentisti, a Cecilia Laca (violino ed è noto come il violino giochi un ruolo simbolico e fondamentale nella partitura), Giovanni Pietro Fanchini (contrabbasso), Enrico Maria Baroni (clarinetto), ma è solo per ragioni di spazio che non possiamo citare tutti. Il pubblico ha applaudito con convinzione ed entusiasmo a fine serata, anche se è parso invero un po’ più scarso rispetto alle trascorse edizioni. Come sempre una scelta coraggiosa e audace da parte di organizzatori e direzione artistica deve mettere in conto l’inveterata (e a dire il vero assurda giacché si tratta di pagine ormai storicizzate) diffidenza del pubblico, pigro per definizione, nei confronti del Novecento. Un doveroso cenno alle scenografie di Cecilia Sacchi che occhieggiano con intelligenza alle avanguardie storiche di Primo Novecento coeve all’Histoire, calandole in una dimensione ‘astratta e onirica’ alla quale rimandano altresì i bei costumi di Maddalena Oriani: moltiplicando ulteriormente le metafore di cui è disseminato il testo di Ramuz e rendendo ancor più straniato e straniero il soldato, ‘profugo da se stesso’, e ancor più proteiforme il diavolo protagonista.
Una serata che si era inaugurata con le sublimi Canciones populares españolas di De Falla (nella non sempre efficace trascrizione di Roberto Vetrano) affidate alla voce esperta di Alda Caiello: che ha fatto del suo meglio per restituire tutta la freschezza, la melanconia e la sensualità di questi sette capolavori che, si sa, trascorrono attraverso svariati e dissimili registri: dalla elegia per l’appunto alla ninna nanna popolare, dal folklore di danze quali Seguidilla, Jota e Asturia sino alla incandescente pagina conclusiva (Polo) dove a maggior ragione è richiesta una vocalità aggressiva ed energica. Alda Caiello ha senz’altro convinto, benché l’avremmo voluta con qualche abbandono in più, ancora più sensuale e coinvolgente. Certo l’ideale e improbabile confronto con numi tutelari quali l’indimenticabile Victoria de los Angeles che eseguiva tali pagine in maniera superba gioca a svantaggio di qualsiasi pur ottima interprete. Merito di Alda Caiello il grande impegno e lo scrupoloso rispetto della partitura.
Così pure ha sedotto cimentandosi con gli impervi e bellissimi Folk Songs che Luciano Berio aveva ritagliato espressamente sulle singolarissime doti vocali della consorte, Cathy Berberian, cucendole addosso una tramatura strumentale rarefatta e intensa al tempo stesso, atta ad evidenziare ancor più le striature policrome di questi testi attinti al folklore made in Usa, come pure derivate dall’universo francese, italiano, russo ed armeno (la terra d’origine della Berberian). Davvero superlativa la dizione della Caiello e la sua capacità di trascolorare attraverso i dissimili registri che si richiedono. Apprezzate poi anche le sue doti attoriali. Ottima la performance degli strumentisti tra i quali piace citare ancora Cecilia Laca, ma altresì la viola di Laura Vignato, il violoncello di Luca Magariello e l’arpa di Elena Piva per i passaggi solistici disimpegnati con souplesse e raffinato gusto; determinante l’apporto dei percussionisti Matteo e Luca Campioni.