di Stefano Martinella foto © Patrick Pfeiffer per WLB
È un’aria frizzante e tutta speciale quella che si respira quando il piccolo treno giallo inizia a risalire la valle dell’Enz, nel cuore della Foresta Nera: il rossiniano osservante non può che immaginare il medesimo viaggio compiuto nel 1856 (certo non con l’odiato treno) dallo stesso Gioachino Rossini, diretto a Bad Wildbad onde cercare nelle acque termali qualche conforto ai malanni del corpo. Il piccolo centro del Baden Württemberg ricorda ancora oggi l’illustre presenza: una bellissima scultura di Karl-Henning Seemann ritrae il Maestro seminudo, con un telo a cingerne i lombi, intento a entrare in una piscina, collocata di fronte all’albergo in cui alloggiò e che oggi porta il suo nome. Ma a legare il nome di Rossini alla città è soprattutto il festival nato nel 1989 e dedicato alla riscoperta e alla riproposizione delle meno rappresentate tra le opere del Cigno di Pesaro, accanto a quelle di autori suoi contemporanei. Il “Rossini in Wildbad Belcanto Opera Festival” offre ogni anno, a fronte di risorse limitate, un variegato e stimolante programma ed ha la capacità di sopperire a mancanze e difficoltà (che qualsiasi teatro incontra nell’allestire molte opere rossiniane) con un entusiasmo e una vitalità che destano sorpresa, ammirazione e, perché no, anche una certa dose di commozione.
L’elemento di maggiore interesse di questa edizione era rappresentato dall’esecuzione – purtroppo nella sola forma concertante – di Eduardo e Cristina, l’opera centone richiesta a Rossini dall’impresario del Teatro San Benedetto di Venezia per propiziare il debutto della figlia, il contralto Carolina Cortesi. Per questo lavoro, che vide la luce il 24 aprile 1819, il musicista radunò in una nuova composizione brani di opere precedenti, in particolare Ermione (caduta al San Carlo nemmeno un mese prima e destinata a un più che secolare oblio) e Adelaide di Borgogna (andata in scena con scarso successo negli ultimi giorni del 1817 all’Argentina di Roma), con elementi più isolati tratti da Mosè in Egitto e Ricciardo e Zoraide: alla struttura musicale così risultante i librettisti Andrea Leone Tottola e Gherardo Bevilacqua Aldobrandini adattarono il testo di un libretto preesistente, scritto da Giovanni Schmidt per l’Odoardo e Cristina di Stefano Pavesi andato in scena al San Carlo nel 1810.
L’esecuzione di Bad Wildbad era affidata alla triade di protagonisti composta da Laura Polverelli e Silvia Dalla Benetta nei ruoli del titolo e da Kenneth Tarver in quelli del padre di lei Carlo. L’opera, di cui non si tramanda alcun autografo e che ancora difetta di un’edizione critica, venne ripresa per la prima volta in tempi moderni proprio nel festival della Foresta Nera, esattamente vent’anni fa; l’esecuzione odierna si è distinta sostanzialmente per il discutibile taglio dell’aria Questa man la toglie a morte, destinata al personaggio baritonale di Giacomo (qui interpretato da Baurzhan Anderzhanov) per il quale Rossini aveva scelto di mantenere l’aria presente nell’opera di Pavesi. La direzione di Gianluigi Gelmetti, chiara e magniloquente, è stata in grado di esaltare tutti i passaggi dell’opera, risultando elettrizzante specie nei momenti più drammatici (perlopiù corrispondenti ai numeri provenienti da Ermione) quali il travolgente finale primo o il duetto del secondo atto Ahi qual orror! O stelle! tra padre e figlia. A emergere indiscutibilmente è l’alto valore musicale e drammaturgico dell’opera, coronata al suo esordio da uno straordinario successo e posta via via in ombra dall’affermarsi di una visione romantica – o romanticistica – dei fenomeni artistici (in particolar modo connessa all’idea della creazione) lontana e aliena dal procedere del Maestro.
Differenti le vicende di Aureliano in Palmira, opera con la quale Rossini inaugurò la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala il 26 dicembre 1813; il successo fu scarso, in una città che aveva visto l’anno precedente il trionfo della Pietra del paragone e solo una settimana prima aveva accolto la terza versione di Tancredi nel nuovo Teatro Re. Ben consapevole dell’alto valore del proprio lavoro altrimenti destinato all’oblio, Rossini utilizzò l’opera quale cava di materiale musicale (a cominciare dalla celeberrima sinfonia) che venne reimpiegato in particolare nel debutto partenopeo di Elisabetta regina d’Inghilterra (1815) e nel Barbiere di Siviglia di qualche mese successivo (1816). A dar voce al ruolo del titolo era Juan Francisco Gatell, a suo agio specie nelle parti centrali della tessitura, affiancato da Silvia Dalla Benetta alle prese con l’ostica scrittura dell’altera regina Zenobia e da Marina Viotti validissima interprete di Arsace, unica parte scritta da Rossini per un castrato (Giovanni Battista Velluti) e di fatto vero protagonista dell’opera. L’esito della serata, anche questa in forma di concerto, è stato purtroppo inficiato dalla concertazione appesantita e più volte imprecisa di José Miguel Pérez-Sierra. A farne le spese in particolare la grande scena di Arsace del secondo atto, a cominciare nella sua delicata introduzione bucolica, in cui si alternano gli interventi corali dei pastori, dell’orchestra e del violino solista, sino alla travolgente cabaletta (sostanzialmente corrispondente alle successive cavatine di Elisabetta e di Rosina).
Due le opere allestite in forma scenica. Il piccolo ottocentesco Kurtheater ha ospitato L’occasione fa il ladro, penultima delle opere in un atto composte da Rossini per il teatro San Moisè di Venezia (1812). L’esecuzione vocale ha potuto contare sulla professionalità di Lorenzo Regazzo e Kenneth Tarver quali Parmenione e Conte Alberto, nonché sui giovani Vera Talerko (Berenice), Roberto Maietta (Martino), Giada Frasconi (Ernestina) e Patrick Kabongo Mubenga (don Eusebio), guidati dalla bacchetta di Antonino Fogliani. Il piacevole spettacolo curato da Jochen Schönleber, soprintendente del festival, ha avuto forse il demerito di indugiare eccessivamente sugli aspetti caricaturali dell’opera, appesantendo a tratti il fluire brillante e leggero degli avvenimenti caratteristico della «farsa» (termine che – giova sempre ricordarlo – nulla aveva a che spartire con il tono dispregiativo assunto ai nostri giorni).
Ultima opera rossiniana in cartellone, nel più ampio sebbene meno esaltante spazio della Trinkhalle, il monumentale Maometto II. Assistere alla penultima opera di Rossini scritta per il San Carlo (1820) è sempre un’esperienza esaltante, giacché consente di contemplare lo straordinario percorso compiuto dal Maestro negli anni napoletani con il susseguirsi di inusitate e ardite sperimentazioni, musicali e drammaturgiche, che solo nella moderna capitale delle Due Sicilie egli poteva mettere in gioco: uno dei più alti traguardi della “Rossini Reinassance” è sicuramente costituito dal recupero di questo lavoro, così profondamente diverso rispetto alla sua rielaborazione in Le siège de Corinthe, compiuta sei anni dopo per l’Opéra di Parigi e destinata a eclissarlo per oltre un secolo e mezzo. L’allestimento di Bad Wildbad, ancora di Jochen Schönleber, è giocato su pochi elementi neutri che rimangono sostanzialmente fissi sulla scena (date anche le caratteristiche della sala) ma in grado di suggerire efficacemente le ambientazioni e scandire i diversi momenti del dramma. Il versante vocale schierava Mirco Palazzi nella parte del protagonista, Elisa Balbo quale Anna Erisso, l’interessante Paolo Erisso di Merto Sungu e la travolgente Victoria Yarovaya nelle vesti di Calbo, destinataria di una meritata ovazione dopo la celebre aria del secondo atto. Elemento chiave della proposta senza dubbio la concertazione di Antonino Fogliani, direttore musicale del Festival dal 2011. Così come in altre opere rossiniane dirette qui a Bad Wildbad, il direttore sembra porre in primo piano il fattore ritmico e l’impetuoso succedersi dei numeri musicali – talvolta forse a discapito dei momenti più lirici e delicati, che risultano in parte sacrificati. L’esito è però travolgente, anche per la capacità di coinvolgere in questa continua tensione tutte le parti in gioco (orchestra, coro e solisti) raggiungendo effetti di grandissimo pathos, come nel serrato finale dell’opera con il rapido scambio di battute tra il protagonista e l’amata che si pugnala gettandosi tra le sue braccia.
Tra le altre proposte del Festival 2017 si segnalano la ripresa de Le cinesi, l’opera composta da Manuel Garcia per gli allievi dell’Accademia di Parigi nel 1831, il concerto del baritono Vittorio Prato dedicato ad Antonio Tamburini (leggendario primo interprete di numerosi ruoli di Donizetti, Bellini e Mercadante) e una serie di concerti Rossini&Co con gli studenti delle masterclasses tenute da Raul Gimenez e Lorenzo Regazzo, tra i quali meritano una segnalazione il mezzosoprano Margherita Tani e il baritono Roberto Maietta.
Colonne portanti del Festival sono, come ogni anno, le compagini del Camerata Bach Chor di Poznań, diretto da Ania Michalak, e dei Virtuosi Brunenses, chiamati a intervenire in pressoché tutti gli spettacoli. Considerando come talvolta orchestra e coro siano impegnati anche in due eventi nella medesima giornata, il già notevole risultato sembra sconfinare nel miracoloso, al punto che chi scrive non si perita di escludere una qualche benevola occulta supervisione di quel signore di bronzo che – a qualche centinaio di metri di distanza – è sempre lì, immobile e silenzioso, quasi scetticamente intento a saggiare con la punta del piede la temperatura dell’acqua.