di Francesco Lora foto © Studio Amati Bacciardi
Si è da poco concluso il 38o Rossini Opera Festival (Pesaro, 10-22 agosto): il primo orfano dei due padri nobili Alberto Zedda e Philip Gossett, il primo ideato per intero dal nuovo direttore artistico Ernesto Palacio, l’ultimo prima delle celebrazioni del 2018 (150o anniversario della morte del compositore) indi dei festeggiamenti del 2019 (40a edizione della rassegna: bolle in pentola una Semiramide). È il più internazionale dei festival italiani, e quest’anno lo è stato ancora più che nei precedenti: pubblico straniero al 70% proveniente anche dalla Georgia e dalla Nuova Caledonia, con un totale di 15.850 biglietti emessi per una ventina di spettacoli e un incasso al botteghino di 1.060.000 euro. Non è il record assoluto: in altri anni si era fatto persino meglio, forse anche grazie alla possibilità di aggiungere una quinta recita agli spettacoli operistici; ma è un indizio inequivocabile di salute, che dopo i tempi donchisciotteschi della semina, ossia ancora agli albori della Rossini-renaissance, attesta oggi quelli felici del raccolto abbondante. Eccone un florilegio.
LE SIÈGE DE CORINTHE
Uragani di contestazioni accompagnarono il tardivo primo allestimento del Siège de Corinthe al ROF: Teatro Rossini, anno 2000, regìa disastrosa di Massimo Castri – la tragedia coturnata scadeva nel buffonesco – e pubblico inferocito: invece di andare in visibilio per un Michele Pertusi di riferimento e un Giuseppe Filianoti sovrumano, all’ultima recita intimidiva la primadonna Ruth Ann Swenson e scambiava insulti con l’Orchestra dell’Opéra National di Lione. Al grande clamore si unì una piccola amarezza: il primo grand opéra del Pesarese era allestito al ROF sospendendo la collaborazione di garanzia con la Fondazione Rossini, ossia senza attendere la messa a punto di un’edizione critica (in questo caso la partitura restaurata secondo la volontà ideale del compositore) e servendosi di una svelta revisione della stampa di Troupenas (vale a dire le musiche come entrate, a costo di tagli, nel repertorio dell’Opéra di Parigi).
Nel nuovo allestimento del 10-19 agosto, all’Adriatic Arena, miracolosa è invece stata la prima ostensione della partitura come nemmeno Rossini poté mai ascoltarla, riportata alla stesura originale dal certosino filologo Damien Colas. Non solo sono stati recuperati venti minuti di musica autentica, ma si apprezzano ora i sapidi impianti drammaturgici ideati dall’autore; l’aria di Pamyra all’inizio dell’atto II, per esempio, vede ripristinato il tempo d’attacco, che già faceva superba figura nel Maometto II; la commissione dell’Opéra lo aveva fatto sparire, ma solo in virtù di esso la monumentale aria della protagonista denota un vistoso parallelismo con l’impressionante aria durchkomponiert di Néoclès all’inizio dell’atto III; a sua volta il tempestoso Final dell’opera, con la riapertura di sezioni corali, infiamma l’ascolto e rivela quanto alla lettera la scena del sacrificio di Cassandre nei Troyens di Berlioz debba al modello rossiniano.
Sarebbe stato bello se in quest’occasione La Fura dels Baus, incaricata di un nuovo allestimento, avesse saputo valorizzare i luccichii musicali e teatrali del testo ripristinato: ma Carlus Padrissa, regista e scenografo, e Lita Cabellut, scenografa, costumista e autrice dei video, non hanno voluto prendere sul serio un lavoro dove si tratta di espansionismo delirante, di un amore sbagliato, di una risoluzione esemplare, di scontri tra contesti religiosi; si sono invece inventati un’altra storia, dove la guerra è per il possesso dell’acqua; e la sferza drammatica del Siège de Corinthe si è annullata: fino all’esito pénible del divertissement nell’atto II, con le danze che vengono suonate mentre niente avviene sul palcoscenico fuorché la proiezione di sentenze di Lord Byron.
Il capolavoro rossiniano è invece stato raccolto in spirito di venerazione dal direttore Roberto Abbado, che alla testa dell’eccellente Orchestra della RAI ne ha data una lettura di traboccante autorevolezza. Ogni gesto sinfonico vi trasudava grandezza, eroismo, decisione, fermezza anche nel ripiegamento intimo del personaggio, sostenendo il canto nelle sue necessità ma ancor più spronandolo ai suoi vertici. Sovreccitazione dell’uditorio e sovreccitazione del Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno: poco nota compagine di provincia chiamata d’urgenza a sostituire il Coro del Teatro Comunale di Bologna – ritirato alla pari della relativa orchestra, per motivi contrattuali impugnati sotto le Due Torri, con un sensazionale autogol artistico: la fondazione lirica felsinea godeva nel ROF la sua più peculiare e rilevante vetrina extra moenia – essa si è rivelata qui, nel suo più ampio ed entusiastico dispiegamento d’organico, all’altezza di una partitura con temibile sollecitazione delle forze corali.
Locandina di voci importanti, capitanate dal soprano Nino Machaidze come Pamyra. Il guastafeste si affretta ad additarne la vetrosità del registro acuto quando emesso a tutta forza. In prima linea vanno però lodate la cospicuità dei mezzi unita alla misura dell’afflato lirico, l’appassionata modernità d’approccio che non rinnega la dignità classica, la vocalizzazione che non schiocca automatica ma è domata con studio indefesso e caparbia mira espressiva. Anche il basso Luca Pisaroni, come Mahomet II, sa stornare con una preparazione sorprendente i pregiudizi intorno alla sua non riprovata specializzazione rossiniana: vanta accento coerentemente mobile dalla tirannia esaltata alla commozione amorosa, controlla la scrittura a tratti fiorita, tradisce talloni d’Achille in talune sfocate ascese all’acuto e in un francese che stizzisce la Senna. Poi c’è il nuovo beniamino dei festivalier, il tenore Sergey Romanovsky, che canta già Donizetti, Verdi e Gounod, ma che con una disarmante semplicità di comunicativa, una singolare romantica avvenenza di figura sulla scena nonché un trascinante appello a tutte le proprie facoltà canore sa espugnare i sopracuti di Néoclès e nel contempo suscitarne lo struggimento.
Ammirevole anche Carlo Cigni, che però risulta essere una scelta artistica poco avveduta: l’enfatica parte di Hiéros gli è stata assegnata secondo l’estetica italiana del basso profondo in parti regali-sacerdotali; ma la scrittura è già conforme all’uso francese di Lully, Rameau, Gluck e Salieri: tessitura che insiste cioè sul registro acuto, indicando in un baritono l’esecutore ideale e presupponendo sforzi innaturali in un basso. Piuttosto flebile, per contro, il tenore John Irvin nella parte di Cléomène, che ambirebbe ad altra possanza declamatoria. E anche la parte di Ismène fa lo sgambetto al pur impegnato mezzosoprano Cecilia Molinari: essa è infatti di modesta importanza nella tradizione dell’opera, ma nell’edizione critica trova esteso il proprio ruolo a responsabilità insospettate (compresa la partecipazione alla celebre preghiera di Pamyra, intonata con lei nientemeno che a intervalli paralleli). Vero comprimariato rimane invece quello del tenore Xabier Anduaga, come Adraste, e del baritono Iurii Samoilov, come Omar: capaci di tuttavia di fissare nella mente la bellezza del ricordo (o il ricordo della bellezza).
LA PIETRA DEL PARAGONE
Pier Luigi Pizzi il regista, lo scenografo, il costumista e soprattutto il maestro di bellezza formato nell’architettura. La pietra del paragone rossiniana da lui allestita nel Palafestival di Pesaro, anno 2002, era un’enciclopedia di civiltà degli spazi e di design novecentesco; parole-chiave: International style e Frank Lloyd Wright, non senza la sedia Wassily e le piscine di David Hockney. Con una sagace trasposizione temporale, a tutto ciò erano istruite la villa del Conte Asdrubale e la microsocietà lì stanziata: cadute di stile nel malvestito quartetto degli scrocconi e una punta d’autoironia nella pineta intorno alla casa, recuperata dal grandioso impianto del Guillaume Tell già allestito da Pizzi proprio nel Palafestival.
Ripresa dall’11 al 20 agosto nell’Adriatic Arena, quella Pietra del paragone è parsa più attuale e arzilla oggi che quindici anni fa. Non tanto per il fatto che Pizzi l’ha ripulita e resa ancora più razionale – la pineta è stata cassata, sostituita da pochi alberelli – ma piuttosto per il fatto che la sua visione aveva precorso i tempi delle risorse: soltanto ora, grazie a un pubblico più smaliziato e a una nuova generazione d’interpreti, i conti tornano con una prestanza individuale prima inimmaginabile e con un lavoro di squadra mosso da divertita complicità. La dimostrazione più lampante si ha intorno alla piscina: allora erano stati ingaggiati mimi che, in costume da bagno, umiliavano i cantanti per disinvoltura scenica e tono muscolare.
Oggi invece tutti vanno in palestra, e come Asdrubale c’è un Gianluca Margheri orgoglioso di esibire la muscolatura e di tenere da solo a bada il pollaio, forte anch’egli di buone doti attoriali; la parte sarebbe però di alta levatura belcantistica, concepita per il mitico basso Filippo Galli, e richiederebbe altra limpidezza di timbro, altra freschezza d’emissione, altra scioltezza di vocalizzazione. Aya Wakizono gli sta accanto come Marchesa Clarice: mezzosoprano in sempre più convincente ascesa, aggiunge qui con gioia una nuova parte importante; meglio sarebbe però indirizzarla a una scrittura più avida di timbro brillante e più sfogata nel registro acuto: tempo al tempo, da lei si potrebbe avere un attendibile Falliero.
Nulla da eccepire c’è invece sul trio dei signori subordinati alla coppia protagonistica. Si gioca anzi con l’idealità, tra un Maxim Mironov che è un Cavalier Giocondo tutto eleganza, un po’ altezzoso, un po’ sornione, padrone nobile della commedia, diafano nel canto eppure pungente; un Davide Luciano che è un Macrobio cinico, caustico, megalomane, di gran lunga l’elemento meno impensierito dal dover riempire di suono l’immenso palazzetto dello sport travestito da teatro; un Paolo Bordogna, infine, che è un Pacuvio buffo sì, ma scattante, calcolatore pur nella sua scioccheria, smaltato di timbro benché abrasivo nel fraseggio, ben disposto a buttarsi in acqua e a rivelare quanto basta di agio atletico.
Marina Monzó è Donna Fulvia (con relativa aria di sorbetto, intonata con piccato decoro) e Aurora Faggioli è la Baronessa Aspasia: entrambe usano la petulanza propria di queste parti comprimarie, ma nella fiammante macchina teatrale non rinunciano a farne personaggi veri. Né glielo permetterebbe, insieme con Pizzi, la concertazione di Daniele Rustioni: fatta di poco colore e molto disegno, come una vignetta, e dunque piena di ritmo, piani dinamici, pungoli al canto, a costo di gettar via dettagli preziosi ma ben restituendo lo spirito dell’opera, articolata in atti che sono a un dipresso due farse complementari. L’Orchestra della RAI e il Coro maschile del Ventidio Basso, manco a dirlo, sanno stare al gioco.
TORVALDO E DORLISKA
Insopportabile è lo scorrazzare di cantanti e coro per la platea, nella stantia ambizione registica di ampliare la scena oltre il sipario. Esiste l’eccezione del Torvaldo e Dorliska con regìa di Mario Martone, costumi di Ursula Patzak e scene di Sergio Tramonti: uno spettacolo nel quale il ferro di cavallo del Teatro Rossini va inteso come il misterioso e contorto castello del Duca d’Ordow, mentre il grosso dell’azione si svolge sul palcoscenico, dove si vedono ricostruiti con realismo cinematografico la corte antistante, la severa cancellata, il bosco pauroso. Creata nel 2006 e ripresa dal 12 al 21 agosto, è un capolavoro di lettura teatrale, non bisognosa di trasposizione spazio-temporale, tutta indagata dentro il testo letterario e musicale, equilibrata attraverso le membra eclettiche del genere semiserio, con una cura di rara amorevolezza nella formazione del cantante al lavoro scenico e dunque nella ricerca della fragranza gestuale e del personaggio esemplare.
Una pari e ancor più determinante amorevolezza si riconosce nella direzione di Francesco Lanzillotta, cui peraltro tocca non la sfavillante macchina della RAI, ma la più modesta Orchestra sinfonica Rossini, affiancata dal simpatico Coro del Teatro della Fortuna di Fano. All’opposto di un Rustioni, che impone sull’opera uno svelto moto uniformante, dovuto più a una propria concezione (non disprezzabile) che a partitura in sé più varia d’orizzonti, Lanzillotta esplora ogni angolo di Torvaldo e Dorliska per metterne in luce le tinte specifiche, le melodie imprevedibili, la mobilità di affetti qui più che mai dilatati tra l’inguaribile patetismo della coppia amorosa, la bonarietà scherzosa della servitù e la schizofrenica tirannia dell’antagonista. Si ascolta un lavoro pulito, onesto, sereno, in scala con la bomboniera del teatro storico di Pesaro e filologico nella raffinatezza – troppo spesso abbandonata: ma sarebbe d’ordinanza – del violoncello che partecipa al sostegno dei recitativi secchi.
Nella compagnia di canto, il mattatore è Carlo Lepore come Giorgio: canto scoppiettante e inconfondibile per materiale e fantasia, mentre il personaggio buffo non potrebbe apparire più ricco di buonsenso e più padrone dello scioglimento dei fatti. Ruvido, grezzo e in fin dei conti rabbiosamente monocromatico, oltre che piuttosto fioco nel registro grave e chioccio in quello centrale, risulta invece il Duca d’Ordow del baritono Nicola Alaimo: la caratterizzazione non manca, né l’autorevolezza scenica, ma la parte è tra le più intriganti di Rossini dal punto di vista belcantistico e psicologico, e pretenderebbe il rinnovo di quella ben più estrema varietà di risorse già attuata da un Pertusi.
Il tenore Dmitry Korchak e il soprano Salome Jicia impegnano ogni energia nella coppia eponima. L’uno, eterna promessa sempre meno protetta da indulgenza, ha mezzi e passione adeguati ma incappa in sgradevoli fibrosità e approssimazioni di tono. L’altra, già data per protagonista nella Semiramide del 2019, ha piglio generoso da primadonna ma – Rossini lo impone – deve ancora conquistare l’infallibilità tecnica. Un investimento andrebbe fatto piuttosto in Raffaella Lupinacci, mezzosoprano capace d’elevare a momento d’attesa gioia vociologica il modesto “sorbetto” di Carlotta; non è l’unico a essere servito, giusta l’Ormondo del tenore Filippo Fontana: macchietta deliziosa.
TRE TENORI, ORGANO A QUATTRO MANI E UN BASSO: TRE CONCERTI
Un programma di concerto degno di un pubblico non casuale. Teatro Rossini, pomeriggio del 17 agosto, David Parry sul podio e in fossa la Filarmonica Gioachino Rossini (che è orchestra differente dalla Sinfonica Rossini). Al proscenio tre tenori: Michael Spyres, alla sua unica capatina pesarese di quest’anno; Romanovsky, a contendergli sportivamente l’amore della platea; infine Irvin, ancor più sportivamente compresso tra gli eroi del ROF. Musiche scelte con cura, privilegiando il Rossini napoletano più raro, e dirette da Parry non tanto con genio protagonistico quanto con estasiata abnegazione: si ascoltano la Sinfonia di Armida, una parte del Ballo dalla stessa opera e il Pas de soldats da Guillaume Tell. In mezzo ai brani strumentali, con i tre tenori si fa sul serio.
C’è un primo giro di duetti. Quello di Ricciardo e Agorante da Ricciardo e Zoraide appaia Romanovsky, nella parte contraltina concepita per Giovanni David, e Spyres, in quella baritenorile concepita per Andrea Nozzari: il primo proiettato, virile e squillante, il secondo impressionante nello scarto di registri (ma sarà proprio il collega a rilevare da lui la parte antagonistica, duettando con Juan Diego Flórez, nelle rappresentazioni dell’opera che inaugurerà il prossimo ROF). Il duetto di Carlo e Ubaldo dall’Armida, con pretese virtuosistiche inferiori, concede un mezzo riposo a Romanovsky ed espone Irvin alla pari ma senza pericoli. Quello di Otello e Iago dall’Otello, infine, appaia Spyres nella parte del moro e Irvin in quella del manipolatore, lasciando indisturbato il primo nel rango di protagonista.
Segue un giro di arie. Anziché recuperare l’unico brano di Rossini per Nozzari non eseguito nel concerto fiorentino dell’ottobre scorso, ossia la cavatina di Antenore dalla Zelmira, Spyres getta con la cavatina di Agorante la sfida al Romanovsky che sarà. Irvin si arrischia nella cavatina di Idreno dalla Semiramide, con qualche esitazione nelle scabrose sestine e nell’acuta tessitura. Senza malizia, Romanovsky risponde per le rime: sceglie proprio la cavatina di Antenore dalla Zelmira e dà un saggio della propria attendibilità in una parte nozzariana; cosa non facile, avendo egli in gola dalla sera precedente lo svettante Néoclès del Siège de Corinthe. Inevitabile il brano di congedo, poi bissato a furor di popolo: il terzetto di Rinaldo, Carlo e Ubaldo dall’Armida, a ribadire l’amichevole gerarchia tra i tre tenori.
Si poteva invece impaginare con miglior profitto il programma del concerto organistico mattutino del 18 agosto, nell’Auditorium Pedrotti. Sarebbe stata un’occasione d’oro per riscoprire la musica strumentale da chiesa com’era nell’Italia nell’Ottocento, con le parafrasi operistiche rivendute come offertori e la fonica dello strumento arricchita con campanelli e grancassa. Al contrario, Giuliana Maccaroni e Martino Pòrcile si sono limitati a eseguire a quattro mani sette trascrizioni (non originali) di composizioni rossiniane: la Marche du sultan Abdul Medjid, un Pas redoublé, una Petite fanfare e le sinfonie della Semiramide, del Tancredi, del Barbiere di Siviglia e della Gazza ladra. Eppure ciò ha giovato a evidenziare armonie sorprendenti che l’orchestra nasconde, e a proporre tempi e articolazioni inusuali eppur plausibili.
L’indomani pomeriggio, 19 agosto, al Teatro Rossini, è tornato a far visita al ROF un cantante a suo tempo avviato al repertorio rossiniano e poi stabilizzatosi in quello di più tardo Ottocento: il basso Ildar Abdrazakov, con la sua esotica e superba collezione di armonici, la modulazione d’alta scuola, la figura disinvolta e accattivante, il porgere vuoi altera vuoi brillante da gran signore della scena. Il suo recital è equivalso all’esibizione di un patrimonio vocale che ammette oggi pochi paragoni, e tutt’altro che di routine è stata la direzione di Iván López-Reynoso alla testa della Filarmonica Rossini. Peccato, però, per la scontatezza e l’incoerenza del programma. Di Verdi, ecco i preludi dell’Attila e dell’Ernani, che non ha senso musicale e teatrale scindere dalla prima scena dell’opera, indi l’aria di Attila, la cavatina di Silva e il monologo di Filippo II, già più volte ascoltati da Abdrazakov in concerto e in recita intera, e privi di attinenza col contesto monografico del ROF. Di Mozart, ecco un’irrelata Ouverture di Così fan tutte e, dal Don Giovanni, l’aria del catalogo di Leporello e la canzonetta-serenata del protagonista. Di Rossini, infine, la Sinfonia della Semiramide e la scena di Assur: ma che proprio al ROF si debba tollerare il taglio spensierato della ripresa della cabaletta è cosa insostenibile. Bis: un’aria della calunnia dal Barbiere di Siviglia con il restauro di tutti i birignao pre-renaissance e, finalmente, un «Le veau d’or est toujours debout» dal Faust di Gounod utile a far la pace con un artista di vaglia e a ripagare di una lista di brani purchessia.