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Addio ad Alessandro Leogrande (1977-2017), giornalista e scrittore prestato alla musica

di Simone Caputo
28 Novembre 2017
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di Simone Caputo


Domenica 26 Novembre si è spento a Roma Alessandro Leogrande, all’improvviso, all’età di quarant’anni. Restano il suo acume intellettuale, la passione civile per l’inchiesta, la capacità di analizzare e rielaborare intellettualmente le vicende del reale, ma soprattutto la capacità di ascolto, l’umanità mai esibita ed un sorriso contrassegno di un’autenticità e di un’attenzione all’altro rare per chi fa il mestiere di giornalista. L’attenzione all’altro è stata il cardine del suo lavoro, mai banale, sempre rigoroso e lucido, che si è manifestato negli articoli scritti per riviste e giornali, negli incontri pubblici, nelle trasmissioni radiofoniche, nei preziosi libri che ha dedicato ai mali del Meridione, ai volti delle migrazioni e alle tragedie del Mediterraneo.

Libri come Il naufragio e La frontiera (Feltrinelli, 2011 e 2015), in cui è riuscito a raccontare, senza retorica, la tragedia del nostro tempo: quella di chi muore in mare per salvare la propria vita dalla guerra e dalla fame. La forza della sua scrittura – ha scritto Andrea Cortellessa nel ricordarlo – «consisteva soprattutto, credo, nella concretezza da hic et nunc con cui, anche quando parlava di terre lontane e dei loro problemi, problemi dai nostri magari altrettanto lontani, faceva sentire la medesima passione umana, prima che civile, con cui aveva mosso i primi passi nella sua città, Taranto, attorno al rogo dell’Ilva e non solo».

Ne nacque un’opera d’acqua e sale, in cui elementi arcaici si depositavano sul tessuto strumentale come la ruggine sul metallo della nave

Dal Naufragio, nacque anche un’opera da camera, Katër i Radës. Il naufragio, composta dall’albanese Admir Shkurtaj su coraggiosa commissione di Ivan Fedele per la chiusura del 58° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia del 2014. Da scrittore, amante della musica, Leogrande teneva molto a quel libretto – sua prima intrusione nel mondo dei suoni –, che aveva permesso a lui e a Shkurtaj di dire attraverso la musica e il canto ciò che la parola scritta spesso non riesce a sfiorare. Il problema che gli si poneva era quello di aggirare i rischi di un racconto codificato che il romanzo-inchiesta di partenza poteva ingenerare, evitando di inseguire il solo sentimento della pietà. Per risolverlo Leogrande aveva scelto di evocare i volti e le vite di chi era andato incontro a una delle tante tragedie del Mediterraneo: quella di una piccola motovedetta albanese, stracarica di uomini, donne e bambini, affondata davanti alle coste italiane nel marzo del 1997. Nell’atto unico si affollava, infatti, chi era sopravvissuto e chi era scomparso, le madri e i figli, le voci, le ansie, i sogni, le apparizioni e i ricordi che accompagnarono quel viaggio verso il buio. Alle spalle c’era un paese in fiamme, l’Albania del 1997, appena uscita – scrive Leogrande – «da uno dei regimi più claustrofobici e totalitari dell’Europa dell’Est e subito piombata nella palude di una incerta transizione dominata da una nuova élite rapace. Davanti, al di là del mare, l’Italia: il paese simbolo dell’Occidente, a lungo sognato e vagheggiato, lo stesso paese alla cui storia gli albanesi hanno spesso intrecciato la propria. Nel mezzo il Canale d’Otrento: crocevia, nei secoli, di attraversamenti e relazioni e – negli anni Novanta – via di fuga dai Sud del mondo verso l’Unione Europea». Ne nacque un’opera d’acqua e sale, in cui elementi arcaici si depositavano sul tessuto strumentale come la ruggine sul metallo della nave: canti polifonici, dialetto del sud-ovest dell’albania, suoni della cupa-cupa, tracce elettroniche che rielaborano i ghigni del mare e delle imbarcazioni. La questione della lingua non fu secondaria nelle riflessioni di Leogrande e nelle rievocazioni sonore di Shkurtaj: i migranti parlano nella loro lingua, l’albanese, ma anche in italiano, imparato da quella televisione che ha a lungo alimentato il mito seducente dell’Occidente, lingua di chi vorrebbe respingerli, «lingua dell’opera, territorio de-nazionalizzato per eccellenza». Scegliendo come cifra stilistica la lingua dei vincitori rielaborata dai vinti, Leogrande costruì una polifonia di parole che sono ricordi, sogni, dialoghi, richieste d’aiuto, pianti, sorrisi e prefigurazioni: fino a far sprofondare le parole nella tradizione balcanica, nei miti mediterranei, nei dilemmi della letteratura funeraria.

Katër i Radës. Il naufragio non è stato l’unico sconfinamento di Leogrande negli spazi della musica: lo scorso 29 settembre ha debuttato a Reggio Emilia, per Aperto Festival, Haye: Le parole, la notte, dramma musicale in dieci scene di Mauro Montalbetti, su testo di Leogrande, con la regìa di Alina Marrazzi. Un viaggio musicale nelle migrazioni contemporanee raccontato attraverso due storie intrecciate – quella di una migrante eritrea, scampata al naufragio di un barcone, e del rapporto tra uno scafista e sua madre –, col naufragio del piroscafo Principessa Mafalda davanti alle coste del Brasile, che coinvolse diversi migranti italiani nel 1927, sullo sfondo. Ancora una volta un viaggio di migranti, come tanti, con tragico epilogo: in questo caso Leogrande aveva scelto di collocare il racconto a tratti in una dimensione onirica in cui le figure sono i fantasmi dei naufraghi che dialogano con i sopravvissuti, a tratti invece nella dimensione del reale, adottando la forma concreta della testimonianza. Sorprendeva l’entusiasmo e la competenza con cui, da persona apparentemente estranea al mondo della musica, parlava, a partire dall’esperienza maturata con Haye: Le parole, la notte, del rapporto tra parola, musica e scena, degli ostacoli che le produzioni contemporanee pongono a un dialogo compiuto e approfondito tra librettista, compositore e regista, della necessità di assicurare alle nuove opere, meritevoli di essere ascoltate, una circuitazione ampia, capace di far “reagire” la messinscèna nel rapporto col pubblico e col tempo.

I progetti che Leogrande andava maturando a partire da queste riflessioni e dalla passione per la musica non vedranno purtroppo la luce. Restano i suoi libretti, pubblicati da Feltrinelli, e le musiche di Admir Shkurtaj e Mauro Montalbetti, che lo accompagneranno in questo nuovo viaggio.

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Simone Caputo

Simone Caputo

È Dottore di Ricerca in Storia e Analisi delle Culture Musicali. È docente a contratto di Storia della musica all’Università dell’Aquila, collabora con il Dipartimento di Musicologia dell’Università di Roma “La Sapienza” ed è redattore per la sezione musica del Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani. Oltre che di musica, ama scrivere di società, media e web 2.0. Collabora da marzo 2015 con Il Corriere Musicale

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