Il pianista, vincitore del Concorso Chopin nel 2015, ascoltato a Milano
di Luca Chierici
A breve distanza dalla comparsa milanese del pianista Danil Trifonov, un’altra giovane, ancor più giovane star del pianoforte ha debuttato al Conservatorio per la Società dei Concerti presentando un programma già consolidato poco dopo l’assegnazione del primo premio al Concorso Chopin di Varsavia del 2015. Stiamo parlando ovviamente di Seong-Jin Cho, il ventitreenne pianista sud-coreano che si è meritoriamente conquistato uno dei massimi allori nel campo delle tenzoni musicali e che ha intrapreso anche una notevole carriera discografica sotto l’etichetta Deutsche Grammophon.
Ascoltato dal vivo, Cho non tradisce certo la credibilità delle sue credenziali e si presenta con un prodotto finito di enorme impegno – l’esecuzione delle quattro ballate di Chopin – che si impone subito con evidenza sulla scia dei grandi esempi del passato. Bellezza di suono, fraseggio perfettamente in linea con i risultati di una tradizione di altissimo livello, controllo totale del mezzo pianistico si accompagnano a una tenuta concertistica davvero esemplare che non lascia dubbio alcuno sulle qualità di questo artista. Artista, già: è questo un titolo che si addice totalmente ai giovani interpreti d’oggi scelti tra una manciata di esempi di livello eccezionale? Il discorso è complesso ma è bene tentare di chiarirlo. Se nel caso di Cho l’unica riserva che ci permettiamo di avanzare è relativa a un non ancora maturo approccio al linguaggio beethoveniano, pure affrontato con abbondanza di mezzi, se nel caso recente di Trifonov sembra che la personalità dell’interprete sopravanzi persino la qualità di parte del repertorio proposto, ci chiediamo comunque quanto il loro approccio risulti frutto di un discorso maturato autonomamente oppure di una pur difficilissima riconquista di traguardi già raggiunti dalle generazioni precedenti. In quest’ultima accezione è giusto utilizzare il termine “artista”? Artista è colui che propone sempre e comunque una lettura dal vivo o in disco di un repertorio concepito in un passato anche remoto? O è forse colui che per la prima volta “legge” i testi in un modo radicalmente diverso, propone “vie nuove” mai indicate da altri? Ed è possibile oggi indicare queste vie nuove se la grande percentuale dei programmi presentati in sala o in disco si riferisce a un repertorio battuto in lungo e in largo da innumerevoli strumentisti (solo in qualche caso veramente “artisti”) nel corso degli ultimi duecento anni?
Il bisogno espresso dal pubblico odierno è innegabilmente quello di ascoltare in sala, di persona, un recital, un concerto sinfonico o da camera, un’opera teatrale (e qui interviene non a caso la “novità”, se ancora vi sarà spazio anche per quella, dell’allestimento, ossia della sommatoria di regìa, scene, costumi, luci e tutto quanto concerne la rappresentazione “visiva” dell’opera stessa). A soddisfare questa richiesta continueranno a provvedere eserciti di nuovi esecutori in grado di rispondere più o meno integralmente ai requisiti necessari, ossia a replicare in maniera consona esempi già illustrati da altre generazioni e in qualche rarissimo caso a proporre “vie nuove” che allo stesso tempo rispettino i testi presi in considerazione e indaghino aspetti ancora non colti attraverso precedenti letture.
Artista sarà quindi – e in futuro ce ne saranno ovviamente sempre di meno – chi riuscirà in questo intento che oggi appare sempre più difficilmente raggiungibile. Il repertorio musicale affrontato è del resto in gran parte stazionario, quasi immobile, e i gradi di libertà che permettono di proporre letture per quanto possibile innovative si restringono sempre di più. Siamo in presenza, in altre parole, di un processo di industrializzazione della pratica della performance musicale, così come nell’800 aveva preso il via un processo di industrializzazione della fabbricazione di strumenti – in primis il pianoforte – che permetteva di soddisfare le richieste di un pubblico sempre più vasto di aspiranti allievi. Come abbiamo indicato già altre volte, ciò che rimane è la possibilità da parte delle giovani generazioni di concentrare le proprie forze sul repertorio meno conosciuto, sia del passato che, soprattutto, di quello contemporaneo. Ossia di agire in un campo dove la concorrenza è minima se non nulla.
Orbene, possono Cho e Trifonov – il discorso si può ovviamente estendere ad altri esempi e ad altre categorie di strumentisti, cantanti ecc. – secondo quanto appena detto, meritare il termine di “artista”? Probabilmente no. Possono essere costoro indicati come pianisti di altissimo livello? Certamente si, e sia l’uno che l’altro fanno parte di una ristretta élite in grado oggi di raggiungere traguardi di indubbia eccellenza.
Seong-Jin Cho, in particolare, sembra vivere ancora in uno stato di ricerca della propria strada, superato lo stress del Concorso e della richiesta di approfondimento di certo repertorio chopiniano, come è d’uso per tutti coloro che vincono l’ambìto premio di Varsavia. È uno stato sperimentato in passato da tutte o quasi tutte le grandi personalità che hanno conquistato posizioni consistenti nei concorsi, o magari da questi sono stati ingiustamente penalizzati, ed è un percorso irrinunciabile per chiunque. Siamo certi che anche per lui vi sarà una naturale maturazione che lo porterà ad approfondire altri autori, altro repertorio particolarmente congeniale alle sue corde. Per il momento il pubblico e gran parte della critica gli stanno tributando un plauso e una fiducia che non lascia ombra di dubbio sul felice proseguimento della carriera.