di Francesco Lora foto © © Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma
UNA PITTORESCA AMBIENTAZIONE ITALIANA SUL LITORALE DI TERRACINA, una storia d’amore tra i giovani e residenti Lorenzo e Zerlina, un matrimonio annoiato tra un Lord e una Lady di passaggio; soprattutto, un protagonista che dà il titolo all’opera ed è un brigante seducente, brillante, capace di tenere in scacco gli altri personaggi con abilità e fascino da Don Giovanni. Con questi ingredienti, Fra Diavolo ou L’Hôtellerie de Terracine di Daniel Auber esordì all’Opéra-Comique di Parigi nel 1830, munito di un’irresistibile ritmica rossiniana, dei dialoghi parlati d’ordinanza e di couplets più ammiccanti che virtuosistici. Ma come la Carmen di Georges Bizet girò poi i teatri del mondo, decuplicando la propria fama, soprattutto in traduzione italiana e con estesi interventi d’autore: drammaturgia meglio mirata a commoventi prerogative tardo-romantiche, dialoghi parlati sostituiti da recitativi cantati, assemblaggio di brani musicali con impianto più complesso e linguaggio più universale. L’opera non è rimasta nel repertorio, ma fa tuttora regolare capolino nelle stagioni dei teatri più attenti alla finezza, alla varietà e all’intraprendenza della proposta.
Soprattutto oggi, il Teatro dell’Opera di Roma dimostra di ricadere appieno in quel giro virtuoso; lo dimostra anche col Fra Diavolo riportato in scena per sei recite dall’8 al 21 ottobre: uno di quegli spettacoli che, sin dal pregio della locandina, implica una precettazione di fatto, da ogni dove, dei più smaliziati melomani. Ciò vale anche al cospetto di un direttore, l’inglese Rory Macdonald, ancora poco conosciuto in Italia ad onta della stretta collaborazione con Antonio Pappano; s’impone tuttavia subito per la lieve, vivida, festosa, ironica, sollecita, pimpante concertazione: attraversa con pari agio ogni registro espressivo e guida orchestra e coro a sottile prova tecnica.
Alleato della sua lettura è il nuovo allestimento presentato: regìa di Giorgio Barberio Corsetti, che soprattutto in questa occasione si distingue come maestro di recitazione; scene di lui stesso e Massimo Troncanetti, le quali sanciscono – insieme con gli ipercaratterizzanti costumi di Francesco Esposito – la spiritosa trasposizione all’Italia centro-meridionale degli scorsi anni Cinquanta-Sessanta; infine, coreografia di Roberto Zappalà – ben più che un tenue gioco mimico: il teatro gli affida non una squadra di figuranti, ma direttamente il proprio corpo di ballo – e luci di Marco Giusti, sui quali torreggia l’esilarante dotazione di video approntata da Igor Renzetti, Alessandra Solimene e Lorenzo Bruno.
L’identità dello spettacolo converge nondimeno con prepotenza sul formidabile protagonista: in John Osborn si trovano tutt’insieme un’emissione di morbidezza inaudita sino alla più strenua sfumatura, un fraseggio che è insieme eleganza, scioltezza e piacioneria, infine un gioco attoriale così divertito da ridicolizzare chi ritenga sprecato un tale artista nella parte di Fra Diavolo. Un’altra macchina teatrale lanciata a pieni giri è quella formata da Roberto De Candia, come Lord Rocburg, e Sonia Ganassi, come Lady Pamela: lui puntualmente autorevole anche nel canto, che è timbrato, ampio, agiato, omogeneo, fino alla minuta chiarezza della dizione; lei affannata nel tenere insieme registri non più integri, ma con simpatia e materiale inconfondibili che sempre la fanno amare. A completare un quartetto principale d’eccezione ci sarebbe voluta la Pretty Yende annunciata in un primo momento: ai fatti, la parte di Zerlina è stata palleggiata tra Maria Aleida e Anna Maria Sarra, quest’ultima con volume non in proporzione con la vasta sala, ma senza dubbio versata nella vivacità sulla scena e nella facilità degli acuti.
Le temibili ascese ai vertici del pentagramma riguardano anche la parte di Lorenzo, che Giorgio Misseri affronta con ponderatezza, mai con sfacciataggine, dando luogo a un bel contraltare rispetto al polo di Osborn-Diavolo. Inappuntabile anche il comprimariato di Alessio Verna, come Matteo, e di Nicola Pamio, come Beppo; addirittura eccellente, per patrimonio maturale, ortodossia tecnica e prestazione attoriale, quello di Jean-Luc Ballestra come Giacomo. Una sola macchia sulla produzione: quella d’aver adottato l’originale versione francese, salvo poi imbastardirla con brani attinti dalla tradizione italiana, ritradotti dunque posticciamente in francese; come al solito, il tallone d’Achille di molti spettacoli è atteso nel testo.