di Luca Chierici
Daniele Gatti è oggi presente alla Scala per quanto lo possano permettere i delicatissimi equilibri che regolano le convenienze del mondo musicale, equilibri dettati anche da questioni di seniority, priorità, attuali posizioni di forza a capo di un complesso scacchiere le cui caselle si chiamano orchestre. Non proprio in fondo alle priorità, ma neanche al primo posto nei requisiti, si colloca l’eccellenza artistica, e nel caso di Daniele Gatti dovremmo attenderci in tal senso una sua più regolare apparizione in una città che oltretutto gli ha dato i natali. Gatti è in possesso di un repertorio vastissimo, maturato in anni di esperienza a capo di orchestre di primo piano, e la bellissima serata di inizio settimana lo ha portato a proporre al pubblico una pagina di Hindemith, autore non tra i più amati dal pubblico anche perché spesso legato al ricordo di esecuzioni molto “rigide” che sottolineano solamente l’aspetto formale di una musica in cui in effetti la costruzione sembra spesso prevalere sulle ragioni del sentimento. Gatti ha invece trovato un equilibrio perfetto che ha permesso di ascoltare al meglio un testo (la suite dal balletto “Nobilissima Visione”) dove il messaggio sottinteso – la glorificazione della figura di San Francesco d’Assisi – è davvero difficile da intravedere senza che l’ascoltatore sia a conoscenza del programma del lavoro originato dalla collaborazione tra Hindemith e il celebre coreografo Massine.
Sarebbe molto interessante ascoltare ancora Gatti alla Scala in questo tipo di repertorio (ha comunque eseguito da noi la Konzertmusik e, lo scorso anno, la sinfonia Mathis der Maler); operazione che continuerebbe una piccola ma significativa tradizione hindemithiana milanese alimentata da precedenti contributi da parte di grandi direttori come Abbado e Muti (quest’ultimo ha nel suo repertorio proprio l’affascinante lavoro ascoltato lunedì scorso). Non stiamo a sottolineare quale sia stata la qualità del suono che Gatti è riuscito ad estrarre dallo strumento che aveva a disposizione, i Filarmonici, e con il quale intrattiene sicuramente un rapporto fatto di reciproca stima. Un suono e un dettaglio di concertazione che ha permesso di sbrogliare anche la fitta matassa contrappuntistica che regola la Passacaglia, ultimo atto della Suite, e che ci ha ricordato seduta stante quale sia il debito di Hindemith nei confronti di Max Reger.
Nuova era invece la proposta bruckneriana della quarta sinfonia, capolavoro le cui peculiarità sarebbe inutile ricordare in questa sede. Gatti ha il potere di ricondurci al significato ultimo di testi di questa portata partendo da un lavoro estremamente minuzioso con l’orchestra per poi estrarre alla fine un messaggio che ovviamente trascende le peculiarità tecniche. Chiarezza di esposizione, innanzitutto, attraverso la quale gli aspetti formali vengono resi percepibili in maniera esemplare – e sappiamo quanto tutto ciò sia indispensabile per la comprensione del labirintico linguaggio bruckneriano – e fantastica capacità evocativa, attraverso i colori e il fraseggio, in una sinfonia che in particolare è imbevuta di reminiscenze non soltanto wagneriane ma che vanno ad evocare tutto il mondo fantastico che ebbe soprattutto in Weber il suo storico illustratore. Prova del nove dell’eccellente lavoro compiuto e ovviamente dello scavo interpretativo da parte del direttore è stata la grande quantità di applausi che hanno siglato il successo assoluto della serata.