di Luca Chierici foto © Paolo Andreatta
L’atteso recital di Mikhail Pletnev per le Serate Musicali di Milano ha attirato molti spettatori, anche più giovani del solito, che hanno tributato al pianista russo ovazioni che non si registravano da tempo. Non è solo nella qualità altissima del pianismo di Pletnev che va ricercata la causa di questo esito oggi piuttosto raro, bensì nella forte dose di personalizzazione dell’approccio interpretativo di questo grande musicista, che va spesso al di là del segno per proporre una sua visione molto creativa dei testi affrontati.
Viene spontaneo innanzitutto notare che questo grado di personalizzazione era dato quasi per scontato, ancora nel periodo tra gli anni Settanta e Novanta, lasso di tempo entro il quale si era in grado di ascoltare tutta un generazione di anziani pianisti che avevano tante cose da dire e lo facevano seguendo delle direzioni stilistiche molto differenti tra loro. Con una certa frequenza potevi assistere a recital di Richter o Kempff, Serkin o Arrau, Rubinstein o Horowitz, Michelangeli o Cherkassky, Magaloff, Bolet: tutti artisti che non solo suonavano da padreterno ma che ti illuminavano con il riflesso di un bagaglio storico e culturale immenso e coniugavano – chi più chi meno – una grande sensibilità personale con le ragioni di un doveroso rispetto del testo. Oggi è molto più difficile uscire da un concerto con quel senso di totale appagamento e Pletnev è rimasto se vogliamo uno dei pochi eredi di quelle grandi scuole, anche se in lui l’intervento manipolatore arriva a volte a travalicare in maniera molto visibile il rispetto per il testo.
In ogni caso sarebbe assurdo nascondersi dietro la facciata del rispetto testuale a tutti i costi, soprattuto quando Mikhail Pletnev si presenta con un programma complesso e interessante come quello dell’altra sera, che ci ha anche ricordato qualche sua scelta controcorrente effettuata nei recital tenuti negli anni passati. La qualità del suono di Pletnev, sommata al timbro insolito ma affascinante del Kawai da lui utilizzato, stabilisce già un punto di partenza non indifferente: un suono così bello, ricco di sfumature, come una ricchissima tavolozza di colori, induce un tipo di piacere fisico-estetico a prescindere da ciò che viene eseguito. E si trattava in questo caso di un programma diviso in due parti, dedicate rispettivamente a Beethoven e a Liszt.
Si iniziava con le 32 Variazioni in do minore, lavoro di grande bellezza ma stranamente non inserito nel catalogo “ufficiale” del compositore, e forse anche per questo motivo piuttosto snobbato da pianisti anche molto famosi ma troppo testardamente legati a una sorta di manuale che indica ciò che si può suonare e ciò che risulta sconveniente mettere in programma. Per buona pace di costoro, queste variazioni hanno invece solleticato l’estro di grandissimi interpreti, da Rachmaninov a Horowitz a Lupu, che vi hanno trovato sufficienti motivi di ricerca. Mikhail Pletnev ha estratto già dall’inizio tutte le proprie armi seduttive, regalando momenti di altissima qualità soprattutto nelle variazioni lente e cantabili e illuminando l’ascoltatore, ad esempio, su una lampante somiglianza tra quei luoghi e una variazione di analogo spirito presente nell’opera 13 di Schumann, dove il discorso viene amplificato verso confini espressivi ben più lontani.
Beethoven – 32 Variazioni do (Variazione XVII) – Pletnev M. – 070518 – Serate Musicali
Schumann – Studi sinfonici op.13 (Variazione IX) – Pogorelich I. – 131194 – Serate Musicali
La proposta non ha convinto del tutto, invece, nella lettura dell’Appassionata, là dove molte scelte troppo personali cozzavano contro una tradizione interpretativa assai solida maturata anche attraverso la saggistica e le edizioni critiche che hanno via via posto dei paletti insormontabili, sempre che lo scopo dell’interprete sia quello di farci ascoltare qualcosa che sia il più possibile vicino alle intenzioni del compositore. Ridurre, a volte, un discorso che ha una sua compiutezza drammatica a un puro gioco di contrasti sonori – in certi casi non giustificati da alcun supporto descrittivo – significa fare torto a un testo che ricopre un significato troppo alto nella memoria di tutti noi. Ciò non toglie, tuttavia, che il fascino del pianismo di Mikhail Pletnev alla fine prevalga sempre, e sia in grado di fare accettare anche deviazioni semantiche che nel caso di altri interpreti verrebbero rigettate senz’ombra di dubbio.
Minori problemi formali gravavano sulle proposte lisztiane. Ciò non significa certo che Liszt sia compositore da prendere sottogamba o trattare alla stregua di un autore che si può arrangiare a piacimento, ma è fuori dubbio che certo descrittivismo romantico invita l’interprete a metterci del suo, e noioso e infelice sarebbe stato considerato, già a quei tempi, uno strumentista che si fosse limitato a una lettura corretta e fin troppo rispettosa del testo. Il programma presentato da Mikhail Pletnev era particolarmente interessante perché alternava tra loro pagine del Liszt del periodo di mezzo, quello dove il musicista razionalizza al massimo i risultati di una ricerca strumentale giovanile, virtuosistica ed estrema, paragonabile forse solo a quella di Paganini in ambito violinistico, a quelle del tardo periodo, dove tutto viene rimesso in discussione e lasciato sospeso in una indeterminatezza armonica che a volte lascia sgomenti. Nella prima categoria di pezzi Mikhail Pletnev ha proposto un meraviglioso collage attraverso il quale le letture di tre Studi da concerto, della prima Valse oubliée, dell’undicesima Rapsodia ungherese uscivano in tutta la loro perfezione come se si trattasse di un concentrato delle più notevoli interpretazioni storiche di queste pagine famose.
Liszt – Gnomenreigen – Pletnev M. – 070518 – Serate Musicali
Nei cosiddetti late works Mikhail Pletnev dimostrava invece come alla lettura ingessata, livida nel suono, grigia nell’umore proposta dalla maggior parte dei (pochi) colleghi, anche famosissimi, si può sostituire una descrizione di fascino timbrico immenso e di intensa portata narrativa. La narrazione del nulla, forse, della catastrofe finale, delle dita che si muovono sulla tastiera senza più trovare il senso compiuto di una pur breve frase. Il recital avrebbe potuto concludersi qui, senza altro aggiungere. Un nostalgico Notturno di Čajkovskij dai pezzi dell’opera 19, il Danubio di Strauss/Schulz-Evler (anch’esso tagliato, come nel caso del Trauervorspiel und Marsch di Liszt, orfano del preludio) o l’ammiccamento a un celebre bis di Moszkowski-Horowitz sono risultati certamente una piacevole conferma di un virtuosismo prodigioso. Ma di questa conferma, probabilmente, non si sentiva proprio l’esigenza.