di Luca Chierici
Le alchimie che si creano tra artisti che decidono di dedicare parte del loro tempo alla cosiddetta musica da camera sono del tutto imprevedibili. È per questo motivo che, in genere, coloro che seguono in particolare questo tipo di repertorio hanno sempre preferito puntare le proprie preferenze sugli ensemble stabili più che ascoltare strumentisti pur eccellenti che si incontrano casualmente per far musica d’assieme. La regola vale in generale, con buona approssimazione, ma non per questo si tramuta in certezza. Accanto a complessi che hanno fatto la storia dell’interpretazione (pensiamo solo, nel nostro contesto, al Quartetto Italiano o al Trio di Trieste) ve ne sono molti altri che svolgono il loro lavoro in maniera precisa e puntuale senza per questo indicare nuovi percorsi o infondere alle grandi pagine del repertorio quel fuoco, quell’estro interpretativo che dà sempre nuovo slancio all’esecuzione musicale. Allo stesso modo, ci sono stati esempi di assoluta eccellenza da parte di grandi solisti che non hanno lavorato all’interno di ensemble stabili ma che hanno trovato al loro interno un miracoloso equilibrio che si aggiungeva alle specifiche doti musicali e strumentali dei singoli (un esempio per tutti, ancora milanese, quello di una magica serata brahmsiana in Conservatorio in cui si ascoltarono i Trii di Brahms eseguiti da Ashkenazy, Perlman e Harrell). Ma si sono verificati anche casi – che tralasciamo di specificare – in cui la pur straordinaria bravura, notorietà e natura musicale di alcuni strumentisti non hanno portato sul campo a dei risultati memorabili nel repertorio cameristico.
Quello che è accaduto lo scorso venerdì all’interno del ciclo di concerti delle “Primavera di Baggio” si può tranquillamente catalogare nel segno dell’inaspettata eccellenza. Inaspettata non certo per una mancanza di notorietà o di bravura o di musicalità dei singoli partecipanti, ma per lo straordinario e in parte insondabile motivo che ha fatto da collante tra i partecipanti stessi e ha portato a risultati di altissimo livello. Potevamo certamente attenderci questo tipo di esito nel caso di Davide Cabassi e Tatiana Larionova, compagni nella musica e nella vita che si sono immersi del tutto nella riscoperta di quello che forse è il capolavoro assoluto nel contesto della musica per pianoforte a quattro mani. Cabassi e Larionova hanno trovato una sintesi ideale nella lettura della Fantasia in fa minore, esito estremo dell’arte schubertiana, pagina della quale non si sa se ammirare di più la triste melopea dell’idea principale, che ricompare ciclicamente nel corso dell’opera, oppure la straordinaria vigoria dello Scherzo, o il bruciante contrappunto della fuga conclusiva. Un materiale forgiato attraverso la sensibilità straordinaria del compositore nelle modulazioni e nell’uso a volte quasi aggressivo delle dissonanze. Misura, qualità del suono, perfetta comprensione dell’arco espressivo sono state solamente le componenti professionali di base sulle quali si poggiava una esecuzione sempre emozionante e partecipe.
Schubert – Fantasia fa 4H D.940 (fuga) – Cabassi D.,Larionova T. – 040518 – Baggio
Se per il duo più che ovvia era la familiarità dell’approccio musicale, non così si poteva dire a priori per i cinque componenti che hanno dato vita al Quintetto “della trota”, uno dei pezzi più famosi della produzione schubertiana forse più salottiera, sicuramente meno teso e avveniristico dal punto di vista dell’armonia e della costruzione formale di quanto non appaia la Fantasia. Eppure anche in questo caso si è verificata quell’insondabile mescolanza di intenti che ha portato a una esecuzione di grande impatto, dove la perfezione dei dettagli era accompagnata da una straordinaria partecipazione da parte di tutti i musicisti. Viene da pensare, quando si assiste a serate di questo genere, che gli esecutori siano come attratti dal vortice della vera e grande musica e riescano miracolosamente sia a mantenere tra loro un equilibrio formale assoluto, sia ad abbandonarsi a ciò che la musica stessa suggerisce in termini di emozioni e di contemplazione della pura bellezza. Ciò avviene soprattutto quando non solamente gli esecutori ma anche il pubblico si trovano in una specie di sintonia, anch’essa del tutto imprevedibile, e quando la posta in gioco appartiene a quei lavori che non lasciano dubbi attorno alla loro importanza straordinaria nel repertorio. La giovanissima Clarissa Bevilacqua al violino, Elena Faccani alla viola, Marco Decimo al violoncello ed Enrico Fagone al contrabbasso (strumento la cui voce risuonava morbidissima eppure assertiva) e ovviamente ancora Davide Cabassi al pianoforte sono stati applauditi a lungo da un pubblico entusiasta.
Schubert – Quintetto LA pf.D.667 (finale) – Cabassi D,Bevilacqua C.,Faccani E.,Decimo M.,Fagone E. – 040518 – Baggio