di Ida Zicari
La ragione del successo di Estri di Aurel Milloss andava ben oltre una riuscita collaborazione artistica con Goffredo Petrassi. Il coreografo e il musicista intendevano allo stesso modo il senso di ciò che chiamavano “neoclassicismo”: non più e non solo un maturo approdo linguistico e formale, ma un ideale a lungo perseguito e ora compiutamente realizzato, vissuto come valore etico nell’arte, elaborato come concezione estetica pregna di cultura della classicità italiana eppure viva di modernità, come espressione di una poetica personale satura di storia e vibrante di presente. Il primo incontro artistico tra Milloss e Petrassi risaliva al ’42, quando, al Teatro Reale dell’Opera di Roma, il coreografo aveva messo in danza, con le scene di Mario Mafai, il Coro di morti, madrigale drammatico per voci maschili, tre pianoforti, ottoni, contrabbassi e percussione, che Petrassi aveva scritto sul testo del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie di Leopardi.
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La collaborazione era proseguita poi nel ’47, con il balletto La follia d’Orlando, allestito al Teatro alla Scala di Milano con scene di Felice Casorati, sull’omonimo balletto petrassiano in tre scene con recitativi per baritono, ispirato all’Orlando Furioso dell’Ariosto; e con il balletto Ritratto di Don Chisciotte, al Théâtre des Champs-Elysés di Parigi, con scene di Tom Keogh, sulla musica che per l’occasione Petrassi aveva appositamente composto; e, infine, nel ’59 con Petit ballet en rose, al Teatro Massimo di Palermo, sulla partitura petrassiana della Sonata da camera per clavicembalo e dieci strumenti. Per poetica, stile, e tecnica, la scrittura petrassiana aveva offerto a Milloss nuova ispirazione al definirsi stesso dell’ambita riforma coreografica.
Ungherese di nascita, il coreografo era arrivato in Italia nel 1938, e subito accolto come pioniere della modernità nel teatro di danza classica. I suoi studi erano stati irregolari, i maestri prestigiosi: Nicola Guerra, Rudolf von Laban, Enrico Cecchetti, Viktor Gsovsky, Olga Preobrajenska, Curt Sachs. I suoi primi successi erano stati in Germania, ad Augusta, Düsseldorf, e Berlino; e nei primi anni Cinquanta, il critico di danza Otto Friedrich Regner, dal suo osservatorio giornalistico tedesco, ne seguiva ancora l’operato. Raccontava che Milloss era molto più che un ballerino o un coreografo: a lui era riuscito “il miracolo romano” di formare dal niente ballerini di fama mondiale come Ugo Dell’Ara, Jolanda Rapallo, Filippo Morucci e Adriana Vitale. Giunto in un’Italia dal passato illustre ma dal presente depresso, Milloss aveva voluto compiere la missione culturale di restituire alla danza le glorie di un’italianità artisticamente ricca, da una parte, facendola rinascere dalla sua stessa prestigiosa tradizione ballettistica, dall’altra, rispondendo all’urgente vocazione dei tempi alla modernità. E ci era riuscito. Con devota perseveranza, difese la danza classica e al tempo stesso la rinnovò. Fu audace la sua intuizione di contemperare tanto l’ideale dell’unione delle arti di Diaghilev quanto quello della sintesi linguistica di Kurt Jooss, ma risultò vincente. Milloss realizzò prolifiche collaborazioni tra artisti della danza, della pittura, e della musica, attraendo al teatro di danza personalità come Alfredo Casella, Luigi Dallapiccola, Roman Vlad, Toti Scialoja, Alberto Savinio, Giorgio De Chirico; e scardinò il consumato vocabolario della danse d’école, aprendolo alle infinite potenzialità della «danza d’espressione» o danza libera labaniana. Così, egli dimostrò fattivamente come e quanto anche in Italia l’idioma del balletto classico fosse in grado di esprimere la sensibilità contemporanea e di dialogare con gli altri linguaggi artistici.
Nel ’68, al suo debutto, il balletto concertante di Estri risultò un indiscusso capolavoro. Quella sera dell’11 luglio al Teatro Caio Melisso di Spoleto, durante l’XI Festival dei Due Mondi, gli interpreti erano d’eccezione: Elisabetta Terabust, Giancarlo Vantaggio e Alfredo Rainò; la musica eseguita dal Gruppo Strumentale Romano diretto da Luciano Berio; la scenografia realizzata da Corrado Cagli. Il programma della serata aveva accostato Estri a Laborintus II di Luciano Berio e Paysage du repons di Henri Pousseur, per uno spettacolo rivolto tutto alla contemporaneità. Il pubblico numeroso e la critica autorevole ne decretarono il successo. All’appello non mancarono Gino Tani, Massimo Mila, Fedele D’Amico, Lorenzo Pinzauti, che salutarono Estri opera tra le più insigni nel panorama della coreografia novecentesca. Un battesimo felice, quindi, suggellato l’anno successivo da Vittoria Ottolenghi che, nel programma di sala pubblicato in occasione delle repliche al Teatro Olimpo di Roma, ne scrisse come uno dei migliori lavori di Milloss. A caldo, si riconobbe prontamente la qualità dell’invenzione coreografica, l’originalità dell’elaborazione neoclassica del codice ballettistico, lo speciale rapporto creato tra il movimento coreografico e la musica petrassiana, la ricchezza di sostanza espressiva contenuta nelle forme della cinesi. E si rilevò la relazione con Balanchine, per analogia con le libertà neoclassiche della danza pura, non narrativa ma nemmeno astratta, con la predilezione per costumi a calzamaglia e scene altamente simboliche nell’essenzialità, con la “musicalità” della fantasia coreografica, e la scelta di capolavori musicali non destinati espressamente alla danza. Subito dopo, le “Immagini coreografiche” di Estri andarono in tournée a Baalbeck, Royan, Roma, Venezia, Vienna, Milano, e l’accoglienza continuò a essere entusiastica: il “balletto moderno italiano” aveva raggiunto uno tra i suoi più alti risultati. Eppure, quella del ’91 al Teatro dell’Opera di Roma fu l’ultima volta che si poté vedere Estri. Dopo la ripresa romana di Giancarlo Vantaggio voluta da Elisabetta Terabust, sulla coreografia millossiana è calato il sipario per non rialzarsi più. E, in breve tempo, silenzio e oblio hanno inghiottito l’opera millossiana. Milloss moriva a Roma il 21 settembre 1988.
Oggi, a cinquant’anni dal debutto di Estri, la figura di Milloss e la sua lunga militanza artistica in Italia sono state validamente storicizzate. Patrizia Veroli, Marinella Guatterini, José Sasportes, Silvia Poletti, Daniela Margoni Tortora ne hanno indagato la portata culturale e la posizione di preminenza nella storia novecentesca italiana, dando giusto risalto ai debiti contratti dall’Italia nei riguardi di un uomo che, solitario, ostinato, idealistico, prepotente, ha guidato per decenni i destini della nostra danza. Ora, però, si sente quanto mai urgente la necessità che l’opera di Milloss sia restituita alle scene e, suscitando rinnovati approfondimenti critici, ricominci a segnare il passo alla consapevolezza delle giovani generazioni. Sopravvive, fortunatamente, di quel felice debutto dell’11 luglio 1968 la registrazione effettuata in diretta e conservata negli archivi Rai. Auspichiamo allora che sia proprio Estri a dare inizio alla doverosa riscoperta di quella che resta a noi un’importante eredità.
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