di Luca Chierici foto © Carmine La Fratta
C’è un elemento non secondario, anche se comune a moltissime carriere artistiche durante il periodo di trapasso tra il secolo diciottesimo e diciannovesimo, che accomuna Paisiello a Cherubini. Entrambi i musicisti si trovarono infatti a dovere accomodare i propri servigi ai governanti di turno, pagando a volte le conseguenze della loro fedeltà politica ma sostanzialmente vivendo in buon accordo con l’establishment e quindi proteggendo il proprio lavoro e lo sviluppo della propria creatività. A Paisiello, a dire il vero, le cose non andarono sempre per il verso giusto: ritornato a Napoli nel 1784 dopo un lungo soggiorno alla corte di Caterina II di Russia, riammesso alla corte borbonica con una lauta pensione fissa, il musicista tradì i propri datori di lavoro scegliendo nel 1799 di aderire alla neonata Repubblica Partenopea, raggiunse Napoleone a Parigi nel 1802, fece ritorno a Napoli nel 1804 sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat ma pagò ben cara la sua devozione verso gli usurpatori trascorrendo in isolamento e povertà il suo ultimo anno di vita (1816) dal momento in cui i Borboni fecero ritorno in città, tramontato il sogno napoleonico.
Nel secondo periodo napoletano (1784 – 1798) videro la luce opere come Nina e i titoli riscoperti solamente a partire dalla fine del secolo scorso come I giuochi di Agrigento e Elfrida. La preziosa attività di ricerca del Paisiello Festival di Taranto porta oggi al recupero di un’altra “commedia per musica” – Le gare generose – che venne messa in scena per la prima volta nella primavera del 1786 nel napoletano Teatro dei Fiorentini. Non si è trattato in questo caso di una pur doverosa proposta diretta a svelare uno per uno, in maniera sistematica, tutti i numerosi titoli del musicista tarantino che giacciono ancora nelle biblioteche senza avere visto la luce di una esecuzione moderna (sia in forma di concerto che di messa in scena vera e propria), bensì di una scelta legata alla bellezza e alla importanza di questo specifico lavoro, che si è rivelato ben più interessante di quanto ci si potesse immaginare. Non è del tutto influente il complicato gioco che sta alla base del soggetto, ambientato in una lontanissima Boston popolata però anche da una coppia di napoletani d.o.c. sotto mentite spoglie (il soprano Gelinda e suo marito, il basso buffo Bastiano) al servizio del ricco Mister Dull (basso), della di lui figlia Nab (soprano) e della nipote Meri (contralto). Un quintetto complicato dalla presenza del giovane e avvenente tenore Don Berlicco, che è egli stesso al servizio di Dull e promesso sposo a Meri.
Il complicato intreccio tra i caratteri dei personaggi ha dato agio alla regista, scenografa e costumista Isa Traversi di sfruttare con intelligenza l’angusta cornice del chiostro tarantino del Convento di Sant’Antonio lavorando su una semplice struttura lignea a tre livelli che permette diverse combinazioni di dislocazione dei personaggi – sempre presenti in scena in abito nero, tranne il rosso vivo di Mab – in un ambito spaziale molto limitato. Alle movenze settecentesche dei protagonisti facevano da contrasto i richiami figurativi a Haring, Lichtenstein, Warhol. In questo senso la regista dichiara un poco audacemente di voler assimilare metaforicamente gli accostamenti vividi del colore alla mescolanza di stili propria di questo contesto paisielliano. L’effigie d’epoca del musicista vigilava peraltro sullo svolgersi degli eventi da una posizione dominante su una delle pareti di sfondo. I sei caratteri sono sufficientemente differenziati dal punto di vista vocale, con due bassi di caratteristiche non del tutto simili (qui il Dull di Stefano Marchisio e il Bastiano di Bruno Taddia), un tenore simil-virtuoso (bravissimo Manuel Amati), un contralto (Giulia Mattiello) che si è rivelato più a proprio agio con la scena che attraverso una vocalità di spicco, e soprattutto due soprano che hanno alzato il livello complessivo del cast sia per la qualità dei momenti a loro assegnati (soprattutto nel caso della serva Gelinda, ossia di Marianna Mappa, ma anche la Miss Nab di Maria Luisa Canali è stata molto applaudita ) che per il rigoglioso sfoggio di emissioni che tendono già al belcanto. Il risultato complessivo della serata non sarebbe potuto essere così convincente senza la guida di Giovanni Di Stefano, concertatore e direttore della volonterosa orchestra del Festival. A lui va riconosciuto anche il merito di una perorazione finale che sottolineava la particolare importanza di questo ritrovamento.
Ma il motivo di maggiore sorpresa (relativa sorpresa, conoscendo un poco lo stile paisielliano e la sua evoluzione nel tempo) risiedeva nei pezzi d’assieme e nella qualità dello strumentale, con importanti inserti dei fiati: soprattutto trii, quartetti, quintetti, sestetti che ci facevano capire il livello di eccellenza di un arte sopraffina. Nel primo atto si ascoltava un complesso Quartetto (Dull, Meri, Gelinda, Bastiano); dopo il trio maschile (con Gelinda che muove i protagonisti dall’alto agendo come una burattinaia) si partecipa a un magnifico intermezzo orchestrale affidato agli archi e ai fiati per introdurre una nuova aria di Gelinda e il sestetto che conclude l’atto rivela già una complessità e una efficacia mozartiane. L’indubbia parentela stilistica tra il musicista tarantino e il grande Mozart, che proprio in quegli anni partoriva capolavori assoluti nel genere della commedia come Le nozze di Figaro o il Così fan tutte, è facilmente rilevabile. Sappiamo che Mozart aveva ascoltato a Vienna nel 1784 il Re Teodoro del collega, e forse l’anno prima lo stesso Barbiere di Siviglia, e che non fu certo insensibile all’arte dell’italiano. Manca a Paisiello la genialità assoluta del motivo indimenticabile che caratterizza la grandissima musica dei capolavori del salisburghese, ma lo spirito del tempo, il bellissimo e intenso spirito che anima il melos tardo-settecentesco d’autore, si coglie perfettamente in quest’opera che sarebbe davvero un peccato tornasse nel dimenticatoio ancora per qualche secolo.