di Luca Chierici foto © Ruth Walz
Per il suo ruolo di centro musicale cui tutto il mondo guarda con rispetto e attenzione massima, il Teatro alla Scala non poteva oggi mancare all’appuntamento con la produzione contemporanea. Di più, non poteva mancare alla commissione di un nuovo titolo nei confronti di uno dei musicisti che hanno fatto la storia degli ultimi sessant’anni e che è da tutti indicato come una guida sicura in un percorso storico non lineare dove spesso le deviazioni non sono tutte sinonimo di nuove ricerche, di indirizzi creativi originali.
Attorno a questo Fin de partie di Kurtág, prima opera di un compositore che ha oggi novantadue anni ed è ricavata dal lavoro teatrale di Samuel Beckett, si è mossa certamente la macchina della propaganda, nel senso positivo del termine, e sarebbe sufficiente guardare all’autorevolezza delle personalità, musicali e non, che hanno assistito alla prima assoluta per rendersi conto dell’importanza dell’evento. Si è quindi ricordato sui media il ruolo fondamentale dello scrittore e commediografo irlandese, la tradizione pur limitata di rappresentazione dei suoi lavori in Italia e soprattutto al Piccolo di Milano, e si è inserita questa “prima assoluta” all’interno di un festival interamente dedicato al compositore ungherese. Non dimentichiamo, però, che il progetto ha origini lontane secondo una tempistica che non aveva potuto essere rispettata dal compositore anche per questioni di salute proprie e della inseparabile moglie Marta. L’opera era infatti stata commissionata da Alexander Pereira, oggi Sovrintendente alla Scala, ai tempi del suo incarico zurighese, poi tentativamente spostata nel contesto del Salzburger Festspiele del 2015, e ancora nel ’16 alla Scala. Ma solamente oggi si è giunti alla realizzazione completa del progetto, che ha visto finalmente coinvolto anche il regista Pierre Audi. Quest’ultimo in un certo senso poteva contare nei confronti di quest’opera di Beckett-Kurtág su un vissuto di intensità quasi paragonabile a quella che il musicista aveva sperimentato nei confronti del drammaturgo. L’incontro tra Audi e Kurtág era infatti avvenuto negli anni ’80, complice Claudio Abbado, ma qualsiasi tentativo da parte del regista di convincere il compositore ad affrontare il genere dell’opera era stato vano anche in periodi successivi. Il lavoro prezioso di Audi ha forse avuto le caratteristiche di un entusiasmante coaching nei confronti degli interpreti vocali, più che di rilettura globale di un testo e di una musica che già ponevano dei paletti molto precisi nei confronti della messa in scena.
L’elemento di maggiore difficoltà in questa proposta di Kurtág, coltivata in un arco di tempo di circa sette anni e mediata da una ancor più lontana conoscenza del teatro di Beckett avvenuta nel 1957 durante il soggiorno parigino del musicista, sta però anche nel fatto che alla complessità tecnica ed espressiva dell’intervento musicale, addirittura parcellizzato sulla singola parola del testo, si sovrappone anche la complessità del testo teatrale stesso, che echeggia a propria volta la complessità del nostro tempo (o meglio di quello del secondo dopoguerra, visto che stiamo parlando di una pièce scritta tra il 1955 e il 1956). E sul richiamo all’importanza del lavoro di Beckett si è anche concentrata tutta la preparazione e la documentazione “didattica” riservata al pubblico e alla stampa. È chiaro che nei confronti di una “prima assoluta” non vi era la possibilità di fornire una guida esaustiva all’ascolto, anche perché l’analisi di una partitura così complessa non è punto facile e verrà forse affrontata in successive occasioni di ripetizione di questo allestimento (o di successivi, nuovi allestimenti).
Appartenente a un genere che si può comodamente catalogare come teatro dell’assurdo,Fin de partie di Samuel Beckett (pièce scritta in francese come era stato il caso di En attendant Godot) non è tra l’altro uno dei testi più diffusi dell’autore e ha sempre trovato una certa difficoltà ad imporsi presso il pubblico contrariamente al Godot e a Giorni felici (Happy days, del 1962). A quest’ultimo lavoro, indimenticabile in una realizzazione milanese con Giulia Lazzarini nel 1982, Fin de partie è per certi versi assimilabile, molti essendo i punti in comune tra le due opere. Scritto nel 1955-56 e andato in scena nel ’57 a Parigi, Fin de partie sembra volere rappresentare uno stadio di estrema sopravvivenza a un evento catastrofico (non una guerra atomica, ipotesi rigettata dallo stesso Beckett, mentre l’ambientazione può essere più probabilmente collegata al desolato panorama post-bellico). Quattro i personaggi: il vecchio Hamm, cieco e paralitico costretto su una sedia a rotelle, il servitore Clov che al contrario deve stare sempre in piedi, i genitori di Hamm, Nell e Nagg, reduci da un pauroso incidente stradale in tandem, più morti che vivi e confinati all’interno di due bidoni della spazzatura. Ne fuoriescono con il busto, così come Winnie, la protagonista di Giorni felici, era immersa nella sabbia. Clov è l’unico che possa dar da mangiare ad Hamm, ma Hamm è il solo depositario delle chiavi della dispensa: esiste quindi tra i due un legame di reciproca dipendenza. Clov si agita attorno ad Hamm, in parte succube, in parte minacciando il suo abbandono, che avviene effettivamente poco prima della conclusione. Hamm e Clov vivono d’altra parte anche la situazione di un “finale di partita” a scacchi, dove il vincente ha già sottomano la vittoria ben prima che la partita stessa abbia la sua conclusione: una delle prime battute di Hamm è infatti «tocca a me la mossa», mentre verso la conclusione dell’opera egli pronuncia parole che non lasciano ombra di dubbio («Vecchio finale di partita persa»). Una partita che ha come finale il nulla, o comunque uno stato di irrealtà che potrebbe continuare indefinitamente. Del resto gli avvenimenti citati dai protagonisti nei loro discorsi sono ridotti a fatti privi di importanza e la logica stessa del linguaggio procede verso una distruzione della forma che può essere riguardata anche come parodia del dramma classico.
La scena originale si svolge nella stanza principale della casa di Hamm in riva al mare, con un interno privo di mobili, immerso in una luce grigiastra. La trasposizione scenica di Christof Hetzer per questo allestimento prevede invece il posizionamento della casa stessa, grigia, con finestre nere, al centro della scena e poi di lato, vista in prospettiva, con i personaggi situati sul fronte della abitazione. Da questo punto di vista si toglie però dall’impianto originale gran parte del senso claustrofobico che traspare dal testo. Di importanza fondamentale sono le luci di Urs Schoenebaum che pongono in risalto l’architettura semplice e spettrale della casupola e che proiettano sulle pareti esterne della stessa le sagome dei protagonisti.
Non vi è un messaggio univoco in questo tipo di teatro, forse solamente la constatazione della caducità e inutilità dei sentimenti, l’attesa del nulla, il disfacimento del corpo che va di pari passo con quello della mente, tanto che con il procedere del lavoro i dialoghi e i monologhi si fanno sempre più ermetici, ossessivi, senza motivi conduttori, come si fanno ripetitive le pur indovinate sequenze di suoni che Kurtág impiega per musicare il testo. Lavoro improbo, quello del musicista, che contravviene deliberatamente a una raccomandazione di Beckett, contrario a una messa in musica dei propri lavori. Kurtág non compone una partitura a commento del soggetto, bensì contrappunta il testo parola per parola, tanto che il messaggio più “puro” lo si coglie solamente nell’Epilogue, con cinquanta battute di sola musica (molti gli accordi misteriosi in pppp) che riassumono il mood di tutta l’opera. Il musicista ha lavorato su una “versione drammaturgica” del testo di Beckett (in partitura si indica il termine di “Scenes et monologues”, che utilizzano solamente una parte del testo originario) ma inserisce nel Prologo un altro testo dello scrittore (Roundelay, del 1976) e applica raffinate tecniche di vocalità moderna mantenendo oltretutto una tradizionale partizione dei ruoli (basso-baritono, baritono, mezzosoprano, tenore buffo) che va ovviamente tenuta in considerazione con tutte le limitazioni del caso. Si tratta infatti di ruoli che si esprimono attraverso un insieme di atteggiamenti che più che al canto in senso tradizionale si rivolgono al parlato, al recitato, cercando di soddisfare le esigenze del testo di Beckett, stringatissimo e difficilmente traducibile in musica. Unico ruolo che trasgredisce questa impostazione è quello di Nell, che mantiene una propria dignità “umana” dall’inizio alla fine: a lei sono riservati soprattutto in apertura del lavoro dei momenti di canto che comunicano una notevole dolcezza espressiva. Quanto all’orchestra, parliamo di una compagine assai ricca ma utilizzata in maniera particellare, con rari (ma molto sonori) momenti di assieme.
Il commento di Kurtág al testo è, si diceva, quasi sempre di una puntualità maniacale e spesso ricorre a paralleli timbrici di una raffinatezza inaudita. Ma ci sono stati anche momenti meno felici dove sembrava che questo tipo di lavoro minuzioso lasciasse il posto a un più semplice commento sfalsato di qualche istante rispetto al testo: una sorta di colonna sonora, pur di altissimo livello, quasi improvvisata sulla declinazione delle parole di Beckett. E si ha anche l’impressione che i tempi dilatati dovuti all’inevitabile rapporto musica-testo non giovino del tutto alla concisione della commedia originale. Si potrebbe essere tentati di avanzare una osservazione (non suffragata da elementi reali) secondo la quale il tessuto musicale kurtaghiano non sarebbe composto solamente da una successione di parti vocali e di commenti strumentali corrispondenti ad altrettanti espressioni del testo, bensì sarebbe frutto di una volontà da parte del compositore nel cercare un ordinamento logico nell’illogicità del testo stesso, come se il linguaggio musicale potesse riscattare da solo, o almeno mettere in crisi, il messaggio nichilistico del soggetto. La stessa divisione in quattordici parti dell’opera potrebbe suggerire questa ipotesi, come se il materiale musicale potesse attingere a un ordinamento che evocherebbe il concetto di “suite” presente già dai tempi del Wozzeck di Berg. Del resto almeno la prima e l’ultima parte del lavoro (Prologo ed Epilogo) fanno esplicito riferimento a una forma chiusa ed è evidente come il compositore viva in modo molto personale quello che è un contesto semanticamente asciutto, trasformandolo in un messaggio musicalmente drammatico, probabilmente molto lontano dallo spirito originale del lavoro di Beckett. Spirito che alla fine, questa è l’opinione di chi scrive dopo il secondo ascolto integrale dell’opera, non viene scalfito in maniera così decisiva dall’intervento di Kurtág: gli elementi che sconvolgono l’ascoltatore derivano cioè essenzialmente dalla forza drammatica del testo e vengono solamente in certi casi rinforzati dall’ascolto musicale. Altri elementi tipici del testo beckettiano, i riferimenti umoristici, le “battute” fulminee che vengono pronunciate a vario titolo dai protagonisti non trovano altrettanto felice traduzione nel relativo commento musicale, come se al musicista non interessasse questo aspetto che tuttavia non è del tutto secondario.
Lo spettacolo andato in scena in prima assoluta alla Scala è il frutto di un lavoro complesso avvenuto sia a Budapest (per la parte di prove musicali, molte delle quali con lo stesso compositore) che ad Amsterdam (per le prove di regìa) e soffre se vogliamo di un eccesso di preparazione nel dettaglio che toglie un poco del senso di improvvisazione, di naturalezza che è proprio di qualsiasi evento musicale e teatrale. Del resto il meccanismo ad orologeria che sembra regolare sotterraneamente lo spettacolo lascia poco o nullo spazio a una “interpretazione” da parte dei protagonisti sia sul palcoscenico che in buca. Le stesse specificità dei quattro ruoli rendono difficile esprimere un giudizio nei confronti dei cantanti che hanno affrontato un impegno simile, sia vocale che attoriale: Frode Olsen ha forse meritato gli applausi più convinti se non altro per l’importanza decisiva del ruolo, ed è stato seguito a ruota nell’apprezzamento del pubblico da Leigh Melrose, Clov. Ma non da meno sono stati Hilary Summers e Leonardo Cortellazzi, costretti a lavorare in uno scomodissimo posizionamento. Markus Stenz aveva tutte le carte in regola per condurre in porto l’impresa difficilissima e lo ha fatto con una dedizione e una bravura infallibili. Sia Stenz che Audi e gli altri responsabili dell’allestimento (Hetzer e Schoenebaum) sono stati premiati anch’essi da calorosi applausi.
Il pubblico ha seguito con attenzione le due ore densissime di teatro e di musica anche se a dire il vero ci sono state non poche defezioni dopo i primi sessanta minuti di spettacolo, ma non tutti i presenti appartenevano alla categoria della gente del mestiere. Nel retro-palcoscenico Pereira quasi danzava felice come Elettra nel finale dell’opera di Strauss che proprio Stenz sta dirigendo in questi giorni alla Scala. Nessuno era più entusiasta di lui, che coronava un sogno durato così a lungo. Mancavano purtroppo soltanto Kurtág con la moglie Marta per rendere ancor più felice il rito degli applausi finali, ma i due coniugi sono stati salutati a gran voce dal Sovrintendente e applauditi virtualmente da tutte le maestranze del teatro, dai critici e da tutti coloro che avevano dato il loro contributo alla realizzazione del progetto.
Come nel caso di tutte le cose che lasciano il segno è necessario ora attendere un giusto periodo di sedimentazione per potere sperimentare su se stessi l’impatto profondo di un messaggio teatrale e musicale di indubbio fascino. Le successive repliche e, chissà, nuove produzioni future di questo Fin de partie potranno essere testimoni dell’incisività di questo lavoro dal punto di vista storico.
Leggo nella recensione: “Il pubblico ha seguito con attenzione le due ore densissime di teatro e di musica anche se a dire il vero ci sono state non poche defezioni dopo i primi sessanta minuti di spettacolo, ma non tutti i presenti appartenevano alla categoria della gente del mestiere”. Non posso fare a meno di considerare: 1) che coloro ( a quanto pare non pochi ) se ne sono andati prime del tempo non credo abbiano seguito “con attenzione” (probabilmente in vedevano l’ora di cogliere una qualche occasione Per togliere il disturbo); 2) che il pubblico che ha gettato la spugna andandosene non apparteneva alla schiera degli addetti ai lavori: dunque parrebbe, da quel che si legge nella recensione, un’opera destinata a tediare i dilettanti e a essere compresa soprattutto ( o solo ) dai professionisti, da quelli del mestiere. Roba tristissima. Mozart e Verdi e tutti i grandi operisti del passato ( anche quello che fu sperimentale tra tutti: Wagner ) riuscirono a coinvolgere e suscitare interesse e passione in tutti, addetti ai lavori e no. Un’opera per una specifica categoria professionale ( i critici, gli addetti ai lavori ) ha la stessa tristezza di una mensa aziendale, di una riunione di lavoro, di una comunicazione settoriale, di una gita da dopolavoro. La grande arte dovrebbe avere altri orizzonti.