di Luca Chierici foto © Simon Fowler
Se si fosse voluto imbastire un prezioso festival pianistico a Milano nella prima settimana di novembre, quasi sicuramente non si sarebbe potuto raggiungere il livello di completezza e di attrattività che è risultato dalla sommatoria di eventi singolarmente organizzati dalle diverse società concertistiche all’interno del loro calendario istituzionale, già denso per gli appuntamenti del mese precedente (si vedano le nostre recensioni ai recital di Volodos e Trifonov). Domenica 4 un recital di Francesco Libetta dedicato a “Grida, Rap, Folia, ovvero il viandante virtuoso, dall’Arabia al Quai d’Orsay; Lunedì 5 il recital di Piotr Anderszewski per le Serate Musicali, in conflitto con quello del duo Canino-Ballista dedicato a Kurtag e presentato all’Elfo Puccini; Giovedì 8 ancora le Serate Musicali con Mikhail Pletnev e in arrivo Lunedì 12 le “Goldberg” suonate da Schiff al Conservatorio. Il tutto sotto il periodo preparatorio all’ascolto dell’incombente, attesissima prima assoluta di “Fin de partie” di Beckett/Kurtag che sta attirando a Milano pubblico e critica da ogni dove.
In questa atmosfera resa un poco greve dalle condizioni atmosferiche si era dunque costretti a far fronte a diverse sollecitazioni, spesso faticose: mai come in questo periodo si dimostra che l’ascolto musicale è questione tutt’altro che banale e salottiera, almeno per chi vuole riflettere, prepararsi a fronteggiare la serata in maniera consapevole, interrogarsi, come è saggio fare, sul perché di certe scelte da parte degli artisti coinvolti, sulla validità del messaggio musicale originale (sempre mutevole nel tempo), sullo stesso effetto che la musica, nota o meno nota, ha su di noi spettatori. La varietà delle proposte era dunque notevole e vale la pena soffermarsi sia pur brevemente su ognuna di esse.
Francesco Libetta, pianista perennemente alla ricerca di se stesso anche attraverso la scelta di repertori insoliti, ha reso partecipi gli attenti soci dello Spazio89 di un viaggio musicale attraverso paesi lontani, fil rouge che permetteva di ascoltare musiche molto diverse tra loro anche per il genere di appartenenza. Per quanto poliedrico sia l’estro di Libetta, le attese erano concentrate sulla parte di programma dedicato a Liszt e autori coevi come Johann Peter Pixis, che gli stanno a pennello e che forse incontrano maggiormente i favori del pubblico, pure ingolosito dai rag di Joplin o divertito per l’ascolto di una serie di “Grida dei venditori di Napoli” messi in musica da Federico Ricci. Il bocconcino prelibato della serata era da questo punto di vista offerto da quella che può essere quasi sicuramente riportata come prima esecuzione assoluta in tempi moderni di una curiosa “Scene populaire de Rome” scritta verso il 1845 e inseribile non tanto nel movimento di recupero delle identità nazionali europee quanto nell’ammiccamento al folclore italiano più accattivante.
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Piotr Anderszewski (nella foto in testa all’articolo) ha invece giocato le proprie carte su quella sua piacevolissima tendenza a sottolineare il lato più scopertamente melodico del contrappunto bachiano, con una scelta di sei preludi e fughe dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato, e a traslare lo stesso tipo di approccio eseguendo le Variazioni Diabelli di Beethoven, almeno nelle parti ove il contrappunto riveste un significato particolarmente decisivo. Anderszewski si era già presentato a Milano con le “Diabelli” nel 2007 e il suo approccio a quest’opera monumentale non è sostanzialmente cambiato. E già nel 2000, il pianista polacco aveva inserito nelle riprese del bel documentario sulle “Diabelli” a lui dedicato da parte di Bruno Moinsageon un esempio tratto dalla Missa Solemnis di Beethoven: nel suonare al pianoforte un frammento di una fuga della Missa (nello specifico sulle parole “Et vitam venturi”) aveva fatto notare come lo sviluppo del contrappunto beethoveniano aveva radici comuni sia nel capolavoro dedicato all’Arciduca Rodolfo che nel contesto delle 33 variazioni nate su invito dell’editore Diabelli. Era quello, se vogliamo, uno degli spunti più interessanti che permeavano già da allora la sua interpretazione dell’op.120. Interpretazione che si è nuovamente ammirata l’altra sera, poco dopo l’ascolto della selezione dal “Clavicembalo” bachiano. La visione che Anderszewski ha del contrappunto bachiano è quella che anni fa veniva bollata come “romantica” e tende a sottolineare le entrate delle voci e a dare risalto a particolari espedienti tecnici nelle fughe. Ma anche nel caso di Beethoven il pianista sottolinea la cantabilità di certi costrutti, ad esempio nella bellissima Fughetta che costituisce la Variazione XXIV, suonata con ancora maggiore autorevolezza rispetto all’esempio di oramai undici anni fa.
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Il ritorno di Mikhail Pletnev, sempre per le Serate Musicali, ha attirato un pubblico piuttosto ristretto ma molto competente che segue da sempre questo pianista raffinatissimo e spesso controcorrente nelle proprie scelte interpretative. E anche in quelle attinenti allo strumento utilizzato per i propri recital, in questo caso uno Shigeru Kawai dal suono a volte metallico e disomogeneo, che però sosteneva alcune idee particolari del pianista sul rilievo alla cantabilità della mano destra, molto accentuata sia negli esempi mozartiani che in quelli beethoveniani da lui affrontati. Che la melodia possa avere il sopravvento sia nelle sonate K 282 e 330 di Mozart che nella op.110 di Beethoven (meno nella 111) è fattore accettabile ma forse non ci aspettavamo un rilievo così deciso e sentito da parte dell’imprevedibile pianista. Questa scelta, e il ricorso a cambiamenti anche sensibili di metrica nell’Adagio della Sonata K 282 hanno lasciato il pubblico a metà tra il perplesso e l’ammirato, ma nessuno poteva rimanere indifferente alla compenetrazione tra segno scritto e immaginazione sonora quando è stata la volta dell’Arietta nell’ultima sonata beethoveniana. C’è sempre una certa dose di manierismo in Pletnev, e nei famosi trilli multipli e in quelli che sostengono la ricapitolazione del tema si ha quasi l’impressione di un tentativo di emulazione nei confronti di Michelangeli, che in quel contesto era meccanicamente inarrivabile. Ma nel commiato estremo persino Pletnev diventava sinceramente credibile, quasi indifeso nei confronti della bellezza assoluta, tanto che di malavoglia si è lasciato andare, superato lo stato di allucinazione suo e del pubblico, a un bis scarlattiano ancora memore del lascito del più grande pianista italiano del ’900.