di Santi Calabrò foto © Giacomo Orlando
«Quanti interpretano Il flauto magico in senso massone non vi evincono, ma vi immettono un’interpretazione» (Hans Georg Gadamer). Non la pensa certo così Pierluigi Pizzi, giunto alla sua quarta regia dell’ultima opera di Mozart. Il rapporto di Pizzi con Il flauto magico evolve sempre più verso il prosciugamento di ciò che gli appare non essenziale, cercando di mettere in scena il “vero” messaggio dell’opera. Con ferrea coerenza, la nuova produzione che ha inaugurato la stagione del Teatro Massimo Bellini di Catania si schiera tutta dalla parte della massoneria e dei suoi ideali, sciogliendo gli enigmi del Flauto magico in un lineare percorso di iniziazione che porta al trionfo degli illuminati, e “rinforzando” la trama nel senso dell’onnipotenza di Sarastro. La presenza in scena della Regina della Notte, delle Tre Dame e di Monostato anche in chiusura dell’opera – scelta non nuova che ha tuttavia sempre un che di incongruo – viene qui portata alle estreme conseguenze: i personaggi antagonisti non solo riappaiono dopo essere stati sconfitti, ma si abbracciano con i massoni vincenti in una edificante conciliazione ultima. Questo quadretto finale da “vissero tutti felici e contenti” è forse l’unica involontaria concessione al fiabesco dell’operazione di Pizzi, che potremmo definire “antigoethiana” – nonostante Goethe stesso sia massone e uno dei suoi romanzi fondamentali (Wilhelm Meisters Lehrjahre) tratteggi un percorso di forte valenza iniziatica. In generale, la posizione di Goethe sulla poesia si guarda dai dogmatismi dell’interpretazione “esatta”: «quanto più incommensurabile e inafferrabile per la ragione è una produzione poetica, tanto meglio». Nello specifico, il “sequel”, come si direbbe oggi, del libretto di Schikaneder – opera incompleta di Goethe, ma abbastanza compiuta da mostrare chiaramente i suoi assunti – ripropone il conflitto tra la sfera matriarcale della Regina della Notte e il mondo spirituale al quale si sono votati Tamino e Pamina, rimarcando sia l’opposizione irriducibile che la coappartenza inestricabile delle due sfere umane, del mondo elementare della vita e di quello spiritualizzato.
Per converso, il tentativo di sminuire ogni insorgenza di impulso naturale pervade dall’inizio alla fine la regìa di Pizzi (che firma anche le scene e i costumi). In gran parte dell’opera i personaggi agiscono su uno sfondo di libri: possiamo immaginare che fra tanti volumi non manchino le opere di Rousseau sul buon selvaggio, ma vedere Papageno seminudo in biblioteca costituisce un attacco alla legittimazione del suo essere sempliciotto, marcandone invece l’inferiorità. Del pari, l’altra scena svelata dalla biblioteca che si apre simbolicamente come un sipario, il tempio massonico al cospetto del quale Sarastro e seguaci esibiscono imperdibili guanti bianchi e grembiulino, colloca tutto il Bene possibile da quelle parti – nonché, certo, l’esito più auspicabile per chi spenda una parte della sua vita sui libri “giusti”. Come se Mozart veramente avesse avuto solo la propaganda massonica quale obiettivo! Mozart è anche altro: lo dice la musica. Tutto Il flauto magico gronda di genio, ma è difficile non riconoscere le altezze più stratosferiche proprio alla musica dei non iniziati e della Regina delle Notte, alla Bildnis-Arie di Tamino o a Pamina quando, credendosi non più amata, prorompe nella sua meravigliosa aria in Sol minore.
Detto questo, la regìa a senso unico di Pizzi è elegante e ben condotta nei movimenti scenici, mentre l’opera di Mozart fa valere la sua densità di significati, non comprimibile da alcuna lettura univoca, anche con un allestimento di questo tipo. Nella replica a cui abbiamo assistito, oltre alla buona prova dell’orchestra di Catania, guidata da Maurizio Dones, e del coro, diretto da Luigi Petrozziello, segnaliamo William Hernandez, un Papageno talmente vivace da far dimenticare i libri e i simboli che dalla scena incombono su di lui, l’elegante Tamino di Klodjan Kaçani, la buona prova di Maria Sardaryan come Pamina. Pur con qualche umano affanno nei sopracuti impervi, Eleonora Bellocci è efficace come Regina della Notte, mentre il ruolo di Monostato, qui ferinamente dotato persino di coda, gode del buon canto e della gestualità allusiva di Andrea Giovannini. Da segnalare ancora l’efficacia delle Tre Dame (Pilar Tejero, Katarzyna Medlarska, Veta Pilipenko). Infine i “dominatori”: Karl Huml è un Sarastro adeguatamente ieratico, mentre i suoi sacerdoti (Oliver Pürckhauer e Riccardo Palazzo) sono talmente compunti da farne presagire destini gloriosi nella muratoria. Teatro gremito anche di bambini e ragazzi, molto attenti e calorosi negli applausi. Forse a loro è arrivato anche un “altro” Mozart, frammisto a quello immaginato dal regista.