di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Dopo vent’anni di assenza dalle scene torinesi, lo scorso 10 aprile 2019 è riapparsa al Regio di Torino la belliniana Sonnambula. E per l’occasione, il Regio ha posto in atto la (discutibile) scelta di riproporre esattamente l’allestimento che vedemmo vent’anni or sono (frutto della co-produzione con La Fenice): allestimento forse anche ‘storico’, come è stato definito, ma ormai – ahinoi – irrimediabilmente invecchiato, per la regia di Mauro Avogadro (Ola Cavagna regista collaboratrice) e le scene di Giacomo Andrico. All’epoca Avogadro (siamo andati a rileggere le sue affermazioni) aveva asserito di «voler evitare i rischi di certa oleografia», affermando come «Amina sia creatura fragile, minacciata da debolezze e mancamenti» (come dargli torto) e dichiarando pertanto di aver inteso «tenersi lontano dalla solita immagine da caramella Helah»: preferendo rivestire il quieto villaggio alpino «di tinte nordiche e paurose più vicino ad una filmografia vampiresca che alla pubblicità del Milkana Oro». Bon, prendiamo atto. Già all’epoca la faccenda aveva lasciato perplessi, ora a maggior ragione l’allestimento risulta irrimediabilmente ‘vecchio’ e stantio, oltre che mediamente triste, quanto meno anodino: benché a suo modo coerente e di fatto funzionale alla vicenda. Per fortuna niente vampirismo (e nemmeno il tradizionale mulino).
Rispetto ad allora sono state ‘abbattute’ (ancora: per fortuna) le fitte abetaie sul fondale che parevano preconizzare la comparsa di Heidi da un istante all’altro, nel tentativo – forse – di render più asettico e atemporale il tutto (gli stilizzati finestroni e la struttura geometrica che campeggia nel primo atto: ma allora perché costumi super tradizionali, quelli pur gradevoli di Giovanna Buzzi? Tanto valeva osare di più, molto di più). E poi, per dire, fare irrompere le masse (movimentate per di più con innegabile goffaggine) nella stanza da letto sortisce effetti risibili. A poco sembra essere servito l’intervento quanto a movimenti mimici di Anna Maria Bruzzese, intervento che avrebbe potuto attenuare la staticità del tutto, ma così non è stato. E si potrebbe proseguire elencando ovvietà e prevedibili ingenuità. Le luci di Andrea Anfossi che all’epoca ci erano parse corrette e in qualche tratto addirittura suggestive sono state evidentemente riviste, ma in maniera negativa. Perché quel chiarore abbacinante nella scena prevedibilmente lunare dell’irruzione in stanza della sonnambula Amina? Anziché trovarci al cospetto di una notte misteriosa immersa nella natura romantica, la stanza viene inondata infatti come da un sole meridiano, quasi fossimo in una estate a Capri, su una immaginaria terrazza. E poi più oltre perché mai quel verde minerale come di aurora boreale? Inspiegabile e francamente bruttarello.
Ed ora il versante più squisitamente musicale. La direzione di Renato Balsadonna, quantomeno la sera della prima, è parsa fiacca con tempi eccessivamente allentati che hanno reso oltremodo defatigante l’ascolto di un’opera già di per sé ritmicamente monocroma, ancorché disseminata di ricercatezze (il tutto reso ancora più impegnativo stante il doppio intervallo per macchinosi cambi di scena). Balsadonna ha peraltro saputo evidenziare con cura ed eleganza svariati dettagli timbrico-armonici che non sempre è dato scorgere all’ascolto, soffermandosi inoltre sui passi maggiormente densi di pathos: una nota senza dubbio di merito, cui fa da contraltare la prova dell’orchestra che ha fatto del suo meglio, sia pure in un contesto di non entusiasmante performance. Purtroppo la sera della prima si sono verificati altresì vari scollamenti tra orchestra e coro (coro singolarmente poco incisivo e un po’ incerto, contrariamente al solito, nonostante il sempre ottimo lavoro di concertazione di Andrea Secchi: coro scenicamente ‘ingessato’ in una staticità prevalente e di fondo). Problemi, questi, peraltro risoltisi nel corso delle repliche.
I protagonisti sul piano vocale. Nel ruolo di Elvino l’affermato tenore Antonino Siragusa – un tenore ‘genuino’ e spontaneo di immediata presa – è parso aitante e deciso, anche se non sempre impeccabile: il suo timbro peraltro ben lo conosciamo, così pure il rischio che l’intonazione venga meno sull’acuto; talora è risultato un poco sopra le righe, riscuotendo a onor del vero sempre convinti applausi da parte del pubblico che, a buon diritto, lo annovera tuttora tra i beniamini del belcanto sulle scene internazionali. L’emozione – davvero palpabile – ha in parte tradito la pur valida Ekaterina Sadovnikova, soprano leggero, voce piccola, inizialmente incerta, con passaggi di registro problematici e asprezze varie. Obiettivamente le cose sono poi migliorate alquanto nella serata e, soprattutto, nel corso delle repliche: dove alla solista non sono mancate scioltezza e fluidità. Pessima la dizione. Successo personale per il navigato Nicola Ulivieri (il conte Rodolfo) in assoluto il migliore del cast, a nostro avviso, per autorevolezza vocale ed attoriale.
A fine serata applausi di circostanza, ma si sa che il pubblico delle prime (questa volta singolarmente scarso, forse per concomitanze sportive ed altro) non è mai generoso, con punte significative, però, ai protagonisti. Da segnalare il secondo cast che ha raccolto meritati consensi nel corso dell’avvicendamento durante le repliche: e dunque Hasmyk Torosyan (Amina), Pietro Adaini (Elvino) e Riccardo Fassi (Rodolfo).