di Luca Chierici
Una vera e propria maratona pianistica, quasi un anticipo nei confronti dell’imminente Piano City, ha avuto luogo a Milano tra martedì 7 e mercoledì 8 maggio scorso. Un fitto calendario di appuntamenti che a volte costringe l’ascoltatore a muoversi con disinvoltura nel traffico per non perdere una nota o almeno assicurarsi una buona parte del programma di due concerti quasi concomitanti, come è accaduto ad esempio la sera del giorno sette. Primo appuntamento irrinunciabile era quello sostenuto da due giganti del concertismo come Maurizio Pollini e Zubin Mehta, complice la giovane ma agguerrita Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala. Sia Mehta che Pollini portano sulle spalle il peso degli anni e soprattutto di una condizione fisica non certo ottimale.
Ma se il direttore ha saggiamente lasciato da parte con il trascorrere del tempo i caratteri più infuocati che contraddistinguevano certe sue interpretazioni giovanili, non così si può dire nel caso del grande pianista, che non rinuncia nemmeno oggi a perseguire le linee interpretative di sempre, rette da una non più sostenibile mescolanza di tensioni tecniche e di inderogabile fedeltà al testo. Il lento ma inesorabile declino che ha contraddistinto le performance pubbliche di Pollini negli ultimi anni è imputabile alla mancata corrispondenza tra volontà e reale capacità di sostenere il pensiero attraverso la manualità di un tempo. Non si tratta qui di misurare l’entità di errori tecnici più o meno spiacevoli, ma più semplicemente di valutare un atteggiamento che non è saggiamente diretto all’approfondimento introspettivo (come hanno fatto quasi tutti i grandi artisti che giungevano a un’età ben più considerevole rispetto a quella attuale di Pollini, che ha settantasette anni) bensì alla replica di un modo di affrontare i testi che era proprio del pianista giovane e giunto alla prima maturità. Dopo avere annunciato l’esecuzione del Concerto di Schumann, Pollini ha scelto di eseguire l’altra sera uno dei tanti capolavori della stagione viennese di Mozart, il K 488 in la maggiore. Un concerto che segnò la straordinaria collaborazione tra Pollini e Karl Böhm negli anni ’70 e che è stato eseguito dal pianista successivamente a fianco di direttori quali Muti e Abbado. Con l’amico Zubin Mehta, anch’egli provato da una recente malattia e quasi sostenuto dagli orchestrali al suo ingresso in palcoscenico, pur appoggiandosi a un bastone, Pollini ha rinnovato sì la magìa del sublime Concerto nel tempo centrale, ma ha sostenuto con evidenti difficoltà i rapidi passaggi del finale accentuandone la componente brillante invece di fare risaltare il contenuto più musicale come avevano fatto in tarda età colleghi che si chiamavano Gieseking, Curzon, Serkin, la Haskil, Rubinstein o Horowitz. Lo spartito originale indica a questo proposito un “Presto”, ma la dicitura deve essere parametrata alle reali possibilità dell’interprete, e in questo caso – come del resto è solito fare anche nei confronti della “Hammerklavier” di Beethoven e dei suoi metronomi al limite delle possibilità umane – Pollini non ha voluto derogare alla sua idea interpretativa fondata anche e soprattutto sulla cosiddetta fedeltà testuale , a costo di pagare la scelta in termini di pulizia tecnica e quindi di chiarezza espositiva. Nell’Andante in fa# minore Pollini ha giustamente insistito sulla resa del colore di una tonalità cara a Mozart, così come faceva anni fa nella parte centrale dell’Adagio nella Sonata K 576 (una delle poche presenti nel suo repertorio) e ha evocato ancora una volta le profondità espressive di una delle pagine più alte di tutta la Musica. Un momento così eccezionale persino nel catalogo mozartiano lascia però obiettivamente poco spazio alla sensibilità dell’interprete, perché qui è la musica stessa che parla quasi da sola, al di là del medium rappresentato dal pianista che la esegue.
Una corsa al vicino Conservatorio ci permetteva di ascoltare buona parte del recital del trentaquattrenne polacco Rafał Blechacz, vincitore del Concorso Chopin (quello vero, di Varsavia) nel 2005 e già acclamato a Milano diverse volte negli ultimi anni. Beniamino del pubblico della Società del Quartetto, Blechacz ha in parte deluso le aspettative presentando in maniera molto discutibile due capolavori come la Sonata op.101 di Beethoven e l’opera 22 di Schumann. Al di là di quello che può essere un più che giustificabile esito temporaneo di una serata non ottimale, Blechacz non ha centrato (neanche del tutto dal punto di vista tecnico) il carattere della “101”, tradizionalmente assimilato a una sorta di annuncio della poetica schumanniana, e ha proposto una lettura che si è rivelata piuttosto confusa. Il caso della sonata op. 22 di Schumann è anch’esso emblematico. Lavoro che tantissimi anni fa era considerato un must nella preparazione di qualsiasi pianista, accantonato poi per tanti anni nei programmi concertistici, la Sonata è stata bistrattata da molti interpreti che hanno ritenuto inderogabili certe richieste di velocità chiaramente espresse nello spartito, ma che vanno intese all’interno dei rapporti interni della sonata stessa, non in senso assoluto. Se si opta per la seconda ipotesi, neanche il prodigioso virtuosismo di un Blechacz può venire a capo di un rebus che rischia di esaurirsi in una rincorsa indescrivibile di passaggi senza capo né coda. E’ così accaduto che il meglio della serata si sia concentrato sia sul Mozart di apertura che sul nome di Chopin. E non tanto sullo Chopin trionfale della grande Polacca op. 53, eseguita come finale in maniera irreprensibile ma non estremamente inventiva, quanto su quello molto più intimo delle mazurke. E qui accade un fatto che è parzialmente inspiegabile. Ancora una antica tradizione vuole che un pianista non possa essere giudicato appartenere ai massimi livelli se non è in grado di suonare correttamente una Mazurka del grande musicista. Avevamo già fatto notare in passato come Blechacz avesse assimilato con stupefacente immedesimazione il rapporto quasi teatrale che governa la struttura tripartita di quasi tutte le mazurke di Chopin e in questo caso i quattro numeri dell’opera 24, meno complessi rispetto agli esempi posteriori, sono stati definiti da Blechacz con una perfezione assoluta e una inventiva stupefacente. Soltanto dalle mani di Paderewski, di Friedman e di certo Horowitz si possono ascoltare cose simili ma, visti gli esiti non del tutto soddisfacenti delle parti precedenti del programma, si può concludere che per Blechacz la perfezione di lettura della Mazurke derivi più da una affinità “di sangue” che non da una maestrìa assoluta estesa a tutto il repertorio pianistico.
Stabilito che il recital valeva certamente la pena di essere ascoltato e che, come si era soliti dire nelle più blasonate guide gastronomiche, le Mazurke “valevano il viaggio, o la sosta”, analogo e più allargato giudizio era quello che accompagnava l’ascolto del recital tenuto dal giovane Benjamin Grosvenor per la Società dei Concerti la sera seguente. Britannico che più non si può, Grosvenor ha immerso forse Blumenstück e Kreisleriana di Schumann nelle tristi brume londinesi (un pizzico di maggiore entusiasmo non avrebbe guastato) ma ha dato il meglio di sé in una appassionata lettura della Sonata di Janacek, in una scelta dalle Visions fugitives di Prokofiev debitrice nei confronti di selezioni analoghe operate da Richter e Gilels nei loro recital e soprattutto in quel capolavoro rappresentato dalle Reminiscences de Norma di Liszt, un momento pianistico di estrema difficoltà tecnico-interpretativa e assieme uno degli esempi più perfetti nel genere della fantasia su temi d’opera, caro sia a Liszt che a moltissimi altri pianisti-compositori soprattutto nel primo ’800. A Vienna, nel corso di sette recital della stagione 1838, Liszt aveva eseguito le Reminiscences des Puritains, la Cavatina dalla Niobe di Pacini, le Reminiscences des Huguenots di Meyerbeer, quelle sulla Juive di Halevy e l’Ouverture dal Guglielmo Tell di Rossini. Questo primo nucleo di fantasie e trascrizioni, assieme ad altri lavori tratti da opere di Auber e Bellini (la Fantasia sulla Sonnambula, del 1839), è oggi quasi del tutto dimenticato e assai raramente qualche pianista si azzarda ad affrontare pagine irte di difficoltà allo stato puro. Alle Fantasie del decennio 1830-1840 segue nel catalogo lisztiano un secondo nucleo di lavori assai più meditati sul piano formale, nei quali le difficoltà tecniche, pur sempre di altissimo livello, vengono anch’esse razionalizzate in vista di un ancora più elevato raggiungimento artistico. Appartengono a questo nucleo i capolavori assoluti delle Reminiscenze di Norma e di Don Giovanni , dove la fusione dell’elemento virtuosistico con l’arte di una disposizione della successione degli episodi drammatici raggiunge gli esiti di un equilibrio perfetto ed irripetibile. Al contrario di Thalberg (e di altri compositori di second’ordine che si cimentarono sulla Norma), Liszt non si limita a trascrivere il famosissimo Casta Diva perché non vede in quella pur celestiale aria l’elemento portante del conflitto tra la protagonista quale Sacerdotessa dei Druidi e allo stesso tempo amante disperata di Pollione.
Il musicista ungherese utilizza invece in successione altri sette luoghi distinti della partitura belliniana in modo tale da coinvolgere l’ascoltatore in ciò che si potrebbe paragonare a una specie di riassunto del dramma, con tanto di colonna sonora. L’apertura è affidata a una trasposizione in tonalità minore del coro «Norma viene» che introduce la nobile aria di Oroveso «Ite sul colle». Con un effetto pianistico di meravigliosa efficacia, gli arpeggi di accompagnamento sostengono il ritmo incalzante che prepara il coro marziale «Dell’aura tua profetica», realizzato con un azzardatissimo accompagnamento di ottave staccate per la mano sinistra. Ritorna alla fine il severo inciso tratto da «Norma viene», quasi una sigla che identifica secondo Liszt l’intera opera; questa ripetizione, seguita da un breve ed intenso recitativo, ha lo scopo di introdurre il punto culminante dell’opera e della Fantasia: il trio «Deh, non volerli vittime» è collegato alle bellissime melodie di «Qual cor tradisti» e «Padre, tu piangi». Improvvisamente si ritorna al clima infuocato del grido di guerra di Norma per il quale l’autore scende in campo con un vero e proprio arsenale di novità pianistiche centrate sull’uso di accordi martellati. A questa sezione segue infine la ripresa di «Padre, tu piangi», con il canto affidato alla mano sinistra e, più avanti, con l’utilizzo di un famoso espediente caro a Thalberg, che simula l’impiego di tre mani (canto nel mezzo, arpeggio sovrapposto lungo tutta la tastiera e accordi nel basso). La stretta tiene in serbo l’ultima sorpresa per l’ascoltatore; si odono qui, sovrapposti, i temi di «Padre, tu piangi» e della marcia «Dell’aura tua profetica», rispettivamente affidati alla mano destra e sinistra. Grandiosi arpeggi “passionato assai” portano finalmente alla cadenza conclusiva.
Non si può parlare di una vera e propria tradizione interpretativa, nel caso delle Reminiscences de Norma, e la storia dell’interpretazione di questa pagina estremamente impegnativa poggia sostanzialmente sui nomi di Alfred Brendel (che da giovane se ne uscì con una incisione discografica strepitosa, contraddicendo apparentemente la solidità di tutti i pilastri musicali beethoveniani e schubertiani sui quali si poggerà la sua futura fama di interprete) e di Jorge Bolet. Benjamin Grosvenor ha rielaborato l’esempio dei grandi predecessori con grande gusto e senso della forma, ottenendo al termine una risposta entusiastica da parte del pubblico che riempiva la sala.