di Luca Chierici
Il consueto recital annuale di Grigory Sokolov, ancora ospite a Milano della Società dei Concerti, ha richiamato in parte alcuni momenti importanti del repertorio del grande pianista russo affiancandoli a nuovi elementi. La Sonata op.2 n.3 di Beethoven era stata già presentata da Sokolov esattamente venti anni fa e nonostante la durata pressoché identica ha subito delle trasformazioni non da poco nella visione del pianista, in particolare nella definizione più pacata del primo movimento. C’è sempre nella lettura del Beethoven giovanile, da parte di Sokolov, la tendenza a volere relegare il discorso in un Settecento lontano e un poco aggraziato, senza far presagire gli sviluppi futuri, e allo stesso tempo ci sembra che manchi in lui quella ferrea determinazione propria di Michelangeli, che collocava la stessa Sonata in un neoclassicismo nitido, pulito, ma allo stesso tempo ne sottolineava il carattere estremamente virtuosistico e di ricerca di una sonorità piena. Ad esempio nella sua lettura dello Scherzo a stento si cercherebbero quegli aspetti toccatistici sottolineati da molti colleghi: con Sokolov tutto scorre preciso come un orologio ma senza alcuno slancio o effetto di velocità, e ancora meno travolgente è il Trio nel quale in genere si sottolinea il Beethoven più “demoniaco”, qui molto più ammansito.
Seguendo una consuetudine propria di certi pianisti del giorno d’oggi, Sokolov ha eseguito senza soluzione di continuità le Bagatelle op.119, nuove nel suo repertorio: lettura molto bella, interessante, poetica. Ma perché far seguire senza pausa l’op.119 a una sonata scritta decenni prima, completamente diversa come intenti e risultati musicali? Qual è in questo caso il messaggio che si vuole indirizzare al pubblico?
All’ultimo Brahms era dedicata tutta la seconda parte del recital (non riferiremo dei numerosi bis che Sokolov dispensa senza fatica alcuna) e in particolare ai Klavierstücke op.118 e 119, anch’essi mai eseguiti prima d’ora a Milano. Anche in questo caso si è trattato di una lettura impeccabile attraverso la quale il pianista non ha mancato di sottolineare alcuni dettagli oggetto di una sua interpretazione che va contro la tradizione seguita dalla totalità dei colleghi. Un particolare per tutti, l’inversione degli accenti sugli scomodi (ma espressivamente intensi) salti di ottava nelle ultime battute della Rapsodia op.119 n.4. Si ha in ogni caso l’impressione, ancora una volta, che l’interprete voglia sottolineare certi dettagli per il puro gusto di stupire, allontanandosi da una scelta di comunicazione diretta e – quando ci vuole – in linea con una tradizione consolidata, tanto da fare apparire oggi come estremamente spontanee e “libere” certe letture (come quelle del già citato Michelangeli, o più tardi, e per altri versi, quelle di Pollini) che un tempo venivano a volte bollate come “fredde” e poco spontanee. L’importante è che il pubblico comprenda quali sono i caratteri stilistici che stanno alla base oggi delle interpretazioni di Sokolov, più che lasciarsi ammaliare dalle luci soffuse (il pianista oramai pretende di suonare quasi al buio !) e dalle caratteristiche più esteriori del “rito”.