di Attilio Piovano
Un’edizione mediamente di grandi successi, quella di MiTo 2019 che ancora una volta vede gemellate la città di Torino (da dove tutto ebbe origine, sarà bene ribadirlo, nel lontano 1978 con Settembre Musica di cui MiTo è la filiazione, ovvero la naturale ‘evoluzione’ 2.0) e Milano. Una vasta e prolungata kermesse musicale (3/19 settembre) con programmi variegati, spesso trasversali, concerti e manifestazioni per tutti i gusti, ma con un preciso fil rouge che ancora una volta ha guidato la programmazione e l’ideazione del Festival stesso da parte del suo colto e vulcanico direttore artistico, Nicola Campogrande: per questa edizione, in particolare, il tema era ‘Geografie’. Impossibile riferire di tutto in uno spazio contenuto. E allora, come già facemmo in passato, dopo la cronaca della serata inaugurale, trascriviamo l’essenziale dai molti appunti di ascolto, estrapolando quanto di più significativo dal nostro fitto diario di bordo dal côté torinese (e sarà giocoforza sacrificare alcune specifiche e dettagliate annotazioni, privilegiando più serate). Sul versante barocco è da registrare, la sera del 5 settembre in Conservatorio, il vasto successo dell’ensemble Les Talents Lyriques, guidato dal fuoriclasse Christophe Rousset che ha saputo restituire la musica di Couperin (Les Nations, Sonades et suites de simphonies en trio) con incredibile freschezza suscitando vivaci emozioni; ecco poi che al Regio il 6 si è ascoltato di Strauss lo spassoso Till Eulenspiegel. Daniele Rustioni ha saputo infondervi humour ed arguzia con una lettura molto ‘novecentesca’ facendo del suo meglio per conferire flessuosità all’Orchestra Verdi di Milano, non sempre impeccabile, con prime parti non del tutto all’altezza e alcune vistose défaillances. Bei fraseggi e nel complesso il giusto spirito del brano, in bilico tra comicità smargiassa, passi finto-tragici ed altri pseudo-sentimentali, ma per burla. Poi, enorme successo di pubblico per i sempreverdi Carmina Burana, invero non commisurato al reale livello interpretativo, con il Coro Verdi e quello di voci bianche in alcuni tratti vistosamente alle corde, attacchi precari e vari problemi di intonazione. Ammirata Giuliana Gianfaldoni, soprano dai bei pianissimi (‘Dulcissime’) e dalle delicate sonorità (ma, orrore, pronuncia pudicitia con la ‘t’), gran mattatore il baritono Roberto De Candia (‘Estuans’), valido il controtenore Antonio Giovannini, ancorché discutibile la scelta di tale voce, in luogo del tenore e viene meno l’ironia dei falsetti nel celebre ‘Olim lacus colueram’.
Poi il 7 l’ormai attesissima serata Open Singing alle OGR che vede la partecipazione di alcune migliaia di persone, guidate a cantare pagine immortali e diversissime (da Tallis al mozartiano Ave Verum, da Bach a Va’ pensiero, al Puccini immenso di Nessun dorma e del coro a bocca chiusa dalla Butterfly sino ad Elio e le storie tese) grazie alla valentìa eccezionale di Michael Gohl (che «saprebbe far cantare una lavastoviglie», parole di Campogrande) e del Coro Giovanile Italiano; ancora una volta mescolarsi tra il pubblico e misurarne l’emozione palpabile è esperienza non da poco. Al Regio la sera di domenica 8 successo personale (del tutto meritato) per Marin Alsop che ha impaginato con intelligenza un programma tutto brahmsiano, alla guida dell’Orchestra del Regio davvero in gran forma. E allora in apertura due notissime e sfrenate Danze ungheresi ad incorniciarne una assai meno eseguita (la n. 3 in regime di Allegretto) quasi un inconsueto trittico, e poi le superlative Variazioni su un tema di Haydn, op. 56a cesellate con una cura indicibile e molto, molto gusto: giù giù sino alla variazione conclusiva, di fatto su basso ostinato, quasi una summa nell’arte del variare, e anticipa la celeberrima Ciaccona della Quarta Sinfonia: che non a caso occupava la seconda parte della serata. Appena qualche piccola caduta di tensione nell’Andante, ma un Allegro giocoso affrontato con ammirevole souplesse e un Finale da manuale: merito in gran parte dell’Orchestra del Regio, oggi a livelli davvero elevati.
Ancora sul versante antico, di spicco in Conservatorio (il 10) una bella silloge di Cantate bachiane tra le quali la stupenda ‘Wachet auf’ BWV 140 affidate al gruppo ed ensemble vocale laBarocca diretto dallo specialista Ruben Jais (tra le voci l’ottimo Mauro Borgioni); tra i concerti decentrati, singolare quello di Stefano Buldrini corno ed Elena Piva arpa, con pagine di Saint-Saëns, Tournier, Hasselmans, Debussy ed altri, in sagaci rielaborazioni, eseguite con gusto e molto charme (‘Notturni francesi’). Il vero clou dell’intero festival, la sera del 13 con la Filarmonica della Scala superbamente diretta da Myng-Whun Chung: raramente ci è accaduto di ascoltare una ‘Patetica’ proposta con sì singolare intensità; una quantità di dettagli posti in luce grazie a prime parti di primissimo livello (ci si perdoni il bisticcio) ed un ‘suono’ complessivo perfettamente calibrato e di grande bellezza, una magnifica curva espressiva, e poi certo, anche qualche condivisibile concessione al plateale, ma con gusto, un direttore – Chung – tra i maggiori viventi e una compagine sinfonica ai massimi livelli, in grado di stare accanto a Santa Cecilia e OSNRai, le uniche orchestre italiane di fatto a poter competere con i migliori complessi internazionali, what else? Memorabile per pathos l’Adagio conclusivo dalla tragica allure, impagabile la pasta degli archi e coinvolgente al massimo per brillantezza il notissimo Scherzo concepito da Čajkovskij nella sua più amata e nota partitura sinfonica, che sempre strappa applausi ‘a scena aperta’. In parte deludente, per il suo eccessivo ed esibito atletismo e per la mancanza assoluta di cantabile (anche nel bis chopiniano) il pur sommo pianista Alexander Romanovsky (già vincitore al Busoni): che ha suonato il mitico Terzo di Rachmaninov ‘esattamente’ come lo vuole il pubblico (non a caso, in visibilio a fine performance), ovvero intendendolo solo come una palestra di virtuosismo estremo, e sta bene, ma il ‘Rach III’ è anche altro. Bon.
Curiosa la sera del 14, al Lingotto (Sala 500), non tanto per la presenza delle bravissime Bahar Dördüncü e Saya Hashino (due pianoforti, la seconda subentrata all’infortunata Ufuk Dördüncü), quanto per il contenuto stesso (‘Parigi 1913: la scène révoltée’): una serata multi mediale (ideazione di Ufuk e Bahar Dördüncü) con l’esecuzione del debussiano Prélude à l’après midi d’un faune (nella bella trascrizione dell’autore stesso che pure fa rimpiangere i colori timbrici dell’orchestra) e del Poème dansé Jeux (che a onor del vero capolavoro non è: lungo, informe e includente partitura, ben al di sotto delle più riuscite pagine dell’autore del Pelléas). A seguire di Stravinskij le dirompenti atmosfere barbare del Sacre du Printemps. Interpretazione a dir poco magistrale, ma le immagini, pur suggestive e le proiezioni live (anche filmati) a cura di Fabrice Aragno invero poco aggiungevano che la musica già con contenga, di fatto talora rivelandosi fuorvianti ed anche distraendo (specie nel caso di Stravinskij). Dunque operazione riuscita solo a metà. Quanto alla serata del 15 settembre, alla guida della Filarmonica di San Pietroburgo avrebbe dovuto esserci il mitico Temirkanov, che invece ha dato forfait. Ma la delusione iniziale dei suoi fans ha lasciato posto all’entusiasmo per Ion Marin che lo ha egregiamente sostituito, proponendo un’interpretazione della Prima di Mahler di grande pregnanza e di innegabile bellezza (forse appena un poco troppo estenuato il secondo tempo e qualche eccesso fonico in chiusura), potendo contare su un’orchestra tra le più incredibili del mondo (che peraltro ricordavamo ancora migliore). Gradita première italiana, in prima posizione di serata, del Larghetto for Orchestra che lo scozzese James MacMillan compose nel 2017, pagina amabile nel suo un po’ prevedibile eclettismo, ben scritta e con un buon senso della forma, e pazienza per qualche più o meno esibita captatio benevolentiae.
Da menzionare infine il concerto di chiusura, a Torino la sera del 19, protagonista l’OSNRai diretta da John Axelrod. Fascinoso esordio con la rarità della pianistica Isle joyeuse di Debussy ispirata come noto al celebre Embarquement pour Cythère di Watteau, nella trascrizione d’epoca di Bernardino Molinari (autorizzata dall’autore stesso); poi ecco del novecentesco Qigang Chen in prima italiana il protratto e pur piacevole brano dal titolo Joie éternelle per tromba e orchestra (solista la valida Tine Thing Helseth), ma se proprio occorre esprimersi, la speranza è che la gioia eterna sia qualcosa di più intenso e meno soporifera (quanto meno della prima parte, dacché la pagina del musicista cinese annovera poi anche vigorosi apici e non poche enfatiche emersioni). Il vero piatto forte della serata tuttavia è stata la Quarta di Mahler che l’OSNRai ha eseguito con innegabile espressività ed alla quale la voce raffinata della colta e sensibile Rachel Harnisch ha aggiunto un quid di immortale: dando corpo a quel paradiso celestiale ed al tempo stesso terrestre ed infantile che l’autore dei Kindertotenlieder seppe concepire, alternando filastrocche a momenti di elevatissima ispirazione: una Sinfonia dove spirito e carne sembrano fondersi mirabilmente, gioia pura e tragedia, angoscia ed estasi, eros e purezza e molto altro ancora. Indimenticabile.