Appunti dalla rassegna monografica pesarese, che compie quest’anno la quarantesima edizione. Dall’omega all’alfa del Rossini italiano, i titoli operistici di punta sono Semiramide, Demetrio e Polibio e L’equivoco stravagante. Tra gli artisti, l’eccellenza di Abrahamyan, Bordogna, Iervolino, Jicia, Leiser-Caurier, Luciano, Mariotti, Meade, Pratt, Rizzi e Siragusa
di Francesco Lora foto © Amati Bacciardi
XL è l’etichetta attaccata all’ultimo Rossini Opera Festival. Senso letterale (se la matematica non rimane mera opinione): è stata l’edizione numero quaranta, traguardo di ridondanza quasi biblica, ed è per giunta seguìta a quella, trentanovesima, che coincideva con il 150o della morte del Cigno di Pesaro; due anni consecutivi, dunque, di speciali celebrazioni. Senso scherzoso (vedi la taglia dichiarata nel comunicato finale): è stata un’edizione descritta con numeri da capogiro, con i suoi 16.500 spettatori, un incasso di 1.125.000 euro (il terzo più alto nella storia della rassegna), un 62% di pubblico straniero proveniente da 36 nazioni e 167 giornalisti inviati da 30 stati del mondo. Là dove Rossini ha reso la città di Pesaro due volte erede principale del suo patrimonio, essa ha restaurato su vasta scala le di lui composizioni, con il più internazionale dei festival italiani. Dal corso che verrà, sarebbe bello se si ovviasse a quanto ancora si può fare, e che pare viepiù urgente. Alzare, per esempio, la posta in gioco sulle partiture eseguite, proponendo con pari convinzione, accanto ai testi principali delle opere, anche le loro numerose versioni varianti, nonché la musica sacra (nel complesso negletta, tolti lo Stabat mater e la Petite messe solennelle), encomiastica (alzi la mano chi ha reale dimestichezza con le grandi cantate) e da camera (i Péchés de vieillesse sono tuttora più menzionati che conosciuti); riaprire poi il discorso su un’aggiornata e attendibile filologia dell’esecuzione, concedendo spazio a orchestre con strumenti originali e prassi proto-ottocentesca, e spronando, dopo una certa indulgenza concessa negli ultimi anni, l’ineludibile specializzazione rossiniana delle voci; rendere consapevole il pubblico, inoltre, affinché non solo affolli le recite d’opera serali, ma anche non diserti – come oggi spesso avviene – gli altrettanto preziosi concerti pomeridiani nel Teatro Rossini; agire, infine, affinché le sedi degli spettacoli tornino tutte dentro lo spazio urbano, abbandonando la Vitrifrigo Arena (isolata, inospitale, scadente nell’acustica) e recuperando una buona volta l’indimenticato Palafestival (posizione comoda e ottimi vista e ascolto). Il futuro artistico è già annunciato per il 2020, con una terna di titoli operistici che dà idealmente conto di altrettanti periodi e stili della produzione rossiniana: la veneziana e giovanile Cambiale di matrimonio, la napoletana e funambolica Elisabetta regina d’Inghilterra, il parigino e grandoperistico Moïse et Pharaon. I melomani più informati già scommettono e stragiurano addirittura sui titoli del 2021; potrebbero essere La gazzetta e Il signor Bruschino, affiancati – questo è invece ormai promesso – dall’unico lavoro non ancora apparso al ROF: il “centone” Eduardo e Cristina, che non è affatto la sbrigativa commedia dai più creduta, ma un’opera seria dove sono rielaborate pagine memorabili da Adelaide di Borgogna, Ermione, Mosè in Egitto e Ricciardo e Zoraide. Mentre le bocce della critica vanno ormai muovendosi e fermandosi, si dice infine la nostra sulla conclusa edizione dalle spalle extralarge: quella che dall’11 al 23 agosto ha contemplato recite della monumentale e concinnatizia Semiramide, dell’adolescenziale e un po’ spuria Demetrio e Polibio, dello smaliziato ed esilarante Equivoco stravagante, più il tradizionale Viaggio a Reims affidato ai giovani dell’Accademia Rossiniana, un gala celebrativo, recital di belcanto e concerti con orchestra. Materia, insomma, da mettere in crisi la virtuosa applicazione della brevità, al cospetto di spettacoli valorosi.
SEMIRAMIDE
Rappresentare Semiramide, per giunta nelle sue intere quattro ore di musica, è gesto di impegno e coraggio, celebrazione e festa. Il ROF ne ha fatto, giocoforza, il proprio spettacolo d’inaugurazione, alla Vitrifrigo Arena, per quattro recite dall’11 al 20 agosto, fissando le ragioni di un doppio stupore: quello per un’esecuzione musicale in grado di scombussolare le abitudini del passato e quello per una lettura teatrale ove si assiste a un raro buco nell’acqua di Graham Vick. Assistito da Stuart Nunn per lo squallido e didascalico grigiore di scene e costumi, il regista britannico azzarda una lettura psicanalitica del dramma: Semiramide reca la frustrazione per una maternità decapitata dalla sparizione del figlio, Arsace un complesso edipico irrisolto dopo che il padre è davvero stato fatto fuori; il tutto è ambientato nel centro direttivo di una multinazionale dove Semiramide è la padrona e il coro ha le bandiere di cento stati dipinte sui volti onde indicare l’impatto globale. È un’idea, per carità; non sbagliata in toto; ma inesaustiva e non all’altezza del capolavoro rossiniano, insufficiente cioè a illustrarlo lungo tutto l’enorme svolgimento o a ristrutturarne l’originale, classico, limpido impianto drammaturgico. Nella pur collaudata coppia con Vick – a essa si devono esperienze oltre ogni lode: il Guillaume Tell pesarese del 2013, la Bohème bolognese del 2018 – resta così isolato il merito del concertatore, Michele Mariotti, che dirige la più matura Semiramide ascoltata almeno da un quarto di secolo a questa parte. Il perché rasenta l’ovvio: conosce la partitura come le proprie tasche, compresi i modi, i tempi e i colori della parola e del teatro; la legge riconoscendole la stessa benedetta dignità sinfonica tributata a un Beethoven o a uno Schubert; freme all’idea di presentarla intera, dopo i penosi tagli cui era stato costretto nel 2017 a Monaco di Baviera. I luoghi indimenticabili non si contano; valga per tutti l’esempio del cantabile nell’aria di Assur, finalmente staccato a passo ansioso, ma con un’elasticità agogica e dinamica che percorre, imprevedibilmente, consigliando il canto, ogni umore, pasta e tinta della gamma tecnica ed espressiva. Consigliando il canto, si diceva: non assecondandolo nella comodità, ma additandogli cosa sia più probo. Contesto e riuscita sono, qui, difatti, faccenda scabrosetta. Il baritono Nahuel Di Pierro, per esempio, ha dalla sua smalto giovanile e voglia di lavorare sodo: ma il registro acuto tende a finire ingolato, le agilità non sono da gran virtuoso, il volume è ordinario e i mezzi poco arroganti. Chi ha ascoltato Samuel Ramey, Michele Pertusi e Ildar Abdrazakov troverebbe poco adeguato alle responsabilità di Assur un tale cantante, se non vi fosse tuttavia la direzione di Mariotti a seguirlo, ispirarlo e sostenerlo, includendolo in un preciso percorso interpretativo. Non è mai stato un segreto che, nel progetto iniziale, la parte fosse stata assegnata a Ildebrando D’Arcangelo, e che a lui dovessero fare da ali le voci femminili. Sbalzate poi in primissimo piano, senza vera concorrenza maschile, Salome Jicia e Varduhi Abrahamyan, l’una come protagonista e l’altra come Arsace, sbaragliano alla grande i pregiudizi: decuplicano i meriti personali raccolti insieme nella Donna del lago del 2016, grazie a una maturata consapevolezza scenica, stilistica e virtuosistica; si armonizzano tanto bene da dar luogo a una nuova coppia rossiniana di riferimento dopo quelle di Katia Ricciarelli e Lucia Valentini Terrani o di Darina Takova e Daniela Barcellona; distillano i loro cantabili e sgranano le loro agilità con forbitezza e mordente che non turberanno i sonni di June Anderson e Marilyn Horne, ma che oggi non temono molto di migliore: giusto una candidabile Raffaella Lupinacci (provare per credere) o una già collaudata Teresa Iervolino (favolosa a Venezia). Un po’ ingombrante il sano vocione di Carlo Cigni per le estasi mistiche e lo sdegno ieratico di Oroe. In forma strepitosa, invece, Antonino Siragusa come Idreno, parte dominata con tanto più di squillo, eleganza e duttilità quanto più la linea vocale si avventura nell’impossibile rossiniano: doti riconfermate nel suo recital del 22 agosto nel Teatro Rossini, dove è un continuo e agiato saltare dall’aria spericolata alla canzone languida, dall’acuto di petto alla modulazione in falsettone, pragmaticamente accompagnato al pianoforte da Gianni Fabbrini.
DEMETRIO E POLIBIO
Se la Semiramide del 1823 è il capolavoro che segnò la conclusione della carriera italiana di Rossini, Demetrio e Polibio è il saggio adolescenziale che alla carriera stessa diede avvio quattordici anni prima. Un avvio in punta di piedi: mentre Semiramide fu concepita secondo un’architettura ardita e ideale, sfidando l’effettiva eseguibilità (l’autore non poté mai ascoltarla intera), Demetrio e Polibio fu commissionata brano per brano, sicché – pare – il giovane Rossini nemmeno si rese conto di stare via via componendo un’opera (mentre anche altre mani ci mettevano del loro). Significativo è dunque assistere a entrambe le opere nel giro di uno-due giorni: intrecciate con quelle già recensite, lo hanno reso possibile le quattro recite del 12-23 agosto nel Teatro Rossini. Detto della nuova Semiramide di Vick, per Demetrio e Polibio è stato ripreso l’allestimento del 2010. La regìa è di Davide Livermore, le scene e i costumi sono dell’Accademia di Belle Arti di Urbino e le luci di Nicolas Bovey. L’economia di mezzi è estrema: a essa corrisponde una lettura teatrale che, in faccia a una drammaturgia originale assai esile, sembra rinunci a tenere il filo del discorso: sul palcoscenico si vedono la moltiplicazione dei corpi dei personaggi, l’evocazione metateatrale che ricrea il palcoscenico sul palcoscenico stesso, nonché una primadonna perigliosamente calata dalla graticcia su un pianoforte. Ma è appunto uno di quei casi nei quali un testo bisognoso di cure finisce all’ombra di un personale pretesto postogli davanti dal regista. La controparte musicale, del resto, non è fatta per battere i pugni: anziché ricercare i primi germi del ritmo di Gioachino, Paolo Arrivabeni dirige con placida amabilità paisielliana la Filarmonica Gioachino Rossini e il Coro del Teatro della Fortuna “M. Agostini”. Nella compagnia di canto – quattro parti in tutto – Jessica Pratt spadroneggia con la totale dedizione espressiva (l’innocente purezza dei cantabili commuove) e la spericolatezza virtuosistica (il bagliore di sopracuti estremi lascia allibiti) della più autentica primadonna oggi di casa al ROF. Alla sua Lisinga si affianca il Siveno mediosopranile di Cecilia Molinari, morbido, semplice, timbrato, baciato dall’idiomatismo della scuola e della lingua italiana, dove conta più il sottile gesto del fraseggio che quello insolente della nota a effetto: ed ecco un’altra attendibile coppia scopertasi complementare sul campo, e meritevole di essere ancora molte volte riconvocata tal quale. La prova del nove, peraltro, ha fortuitamente luogo: al concerto del 19 agosto, ivi, diretto da Carlo Tenan e con l’Orchestra sinfonica “G. Rossini”, la rinuncia della Abrahamyan riavvicina d’urgenza la Molinari alla Pratt, sposate a puntino nel duettino di Zelmira e nel primo duetto di Tancredi, e indipendenti l’una in una commossa sortita di quest’ultimo eroe eponimo, l’altra in un carismatico e sfolgorante rondò finale da Matilde di Shabran. Ritorno a Demetrio e Polibio: tenore di grazia votato a una scrittura lieve, Juan Francisco Gatell non trova invece una parte acconcia in quella declamatoria, tirannica e baritenorile di Eumene. Per timbro sugoso, proiezione sicura e porgere accattivante, oltre che per disinvolto gioco scenico, straripa invece di prestanza il Polibio di Riccardo Fassi, giovane basso piovuto negli ultimi tempi a rinnovare gli onori della propria corda.
L’EQUIVOCO STRAVAGANTE
Ed ecco lo spettacolo che è stato anche il fiore all’occhiello del festival, costruito intorno alla più matta tra le esperienze teatrali di Rossini: L’equivoco stravagante, con quel suo libretto in sé metalinguistico e metateatrale, sul quale la musica evidenzia e raddoppia le burle e i doppisensi, e con quel soggetto esplosivo dove il matrimonio sgradito è mandato a monte facendo credere a lui che le nozze sono un imbroglio e che lei è un castrato in vesti femminili. Cosa c’era da aspettarsi per le quattro recite del 13-22 agosto alla Vitrifrigo Arena, se gli artefici dell’allestimento sono i registi Moshe Leiser e Patrice Caurier, lo scenografo Christian Fenouillat, il costumista Agostino Cavalca e il light designer Christophe Forey, vale a dire un gruppo affiatato dal quale sono arrivati spettacoli uno più spudorato dell’altro? Sorpresa: al cospetto dell’Equivoco, testo già saturo di ogni eccesso, Leiser e Caurier non aggiungono alcunché, se non le protesi che deformano grottescamente i corpi dei personaggi, alla maniera di certi disegni satirici francesi di fine Ottocento. Essi lavorano invece in modo meticoloso con gli attori, negli spazi, sulla parola e nella musica, affinché nulla si perda e la surreale azione veda di continuo scintillare il martello sull’incudine. Si può dire? Pare di assistere a un quinto Rossini di Jean-Pierre Ponnelle, e non si potrebbe avanzare un complimento più lusinghiero. Si ride; e ci si commuove pure davanti a scene di improvvisa poesia: per esempio, quando l’amato tenore Ermanno fa evadere dal carcere il suo contralto Ernestina, e mentre egli canta un cavatina ella si traveste da uomo al chiaro di luna, arrossendo pudicamente mentre cerca di non far vedere troppo di sé. Al capolavoro registico si aggancia quello direttoriale: al ROF, Carlo Rizzi è un veterano; ma mai si era ascoltata una sua concertazione rossiniana più scaltra, definita e brillante, adeguata allo stabile dettato della partitura e nel contempo all’idea teatrale e ai cantanti. L’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e il Coro del Teatro “Ventidio Basso”, già impegnati in Semiramide, l’una piuttosto metallica e l’altro fresco di voci giovani, reagiscono non meno sorprendentemente che sotto la bacchetta di Mariotti. Formidabile Teresa Iervolino come Ernestina. La prima cosa da dire è che la parte, contraltile e con una tessitura grave oltre il consueto, si presenterebbe come proibitiva: ella non solo cava le castagne dal fuoco al direttore artistico, accettando di cantarla, ma la affronta anche con disarmante souplesse di nero velluto timbrico. Seconda cosa: da chi ha già confidenza con Tancredi, Calbo e Arsace non si pretenderebbe anche un talento comico d’eccezione; talento che però c’è, innanzitutto là dove nell’affettazione di Ernestina si riconosce un’autoironica, tenera mutazione dell’ampio accento da ruoli en travesti. Nelle parti baritonali buffe, anzi buffissime, di Gamberotto e Buralicchio, Paolo Bordogna e Davide Luciano rimangono memorabili anche solo per come muovono gli occhi. Quanto al tenore amoroso, sia alla prima recita, radiotrasmessa, sia alla terza e alla quarta, qui recensite, l’indisposizione vocale di Pavel Kolgatin – tale la si spera, calorosamente – non è annunciata, ma fa scambiare sguardi imbarazzati tra le file della platea; peccato: il Gatell fuori posto in Demetrio e Polibio sarebbe stato l’ideale per la parte di Ermanno qui in oggetto. Il soprano Claudia Muschio, come Rosalia, recita spigliata e spigliata canta la sua aria di sorbetto. L’altro ruolo munito di sorbetto è più che di comprimario, ossia di deus ex machina da cui dipende parecchio ritmo scenico: l’interprete della parte di Frontino, il quasi imberbe tenore Manuel Amati, è un attore che fa venire il solletico con le proprie battute e un cantante con carte in regola per spingersi molto, molto, molto in là.
IL VIAGGIO A REIMS
Le due recite mattutine del Viaggio a Reims, il 18 e 20 agosto nel Teatro Rossini, servono ai melomani come tornasole circa lo stato delle nuove voci, nello specifico quelle appena perfezionate all’Accademia Rossiniana. C’è chi ha onestamente studiato canto e chi è pronto per la carriera autentica. Tra questi ultimi, vale la pena di nominare il contralto Chiara Tirotta, polposa a dispetto di una parte, quella della Marchesa Melibea, un tantino acuta per i suoi mezzi naturali; ma anche altri: il baritono Dean Murphy, virile, forbito, timbrato e risonante, oggi come Lord Sidney e quarantott’ore dopo come Don Alvaro; il pari corda Diego Savini, che come Don Profondo può raimondeggiare poiché è all’altezza istrionica del modello; e soprattutto Giuliana Gianfaldoni come Corinna: porge con una consapevolezza tecnica e una pregnanza di modulazione da lasciare senza parole, e tiene il teatro con un fiato in sospeso forse non concesso ad alcuna altra diva in questa edizione. L’allestimento rimane, dal 2001, quello funzionale e immacolato con regìa di Emilio Sagi, scene del medesimo e costumi di Pepa Ojanguren. La direzione spetta anch’essa a un giovane: Nikolas Nägele, che in luglio ha diretto una pallida Italiana in Algeri al Teatro Comunale di Bologna, e che al nuovo cimento, con l’Orchestra sinfonica “G. Rossini”, svela finalmente benvenuta vitalità.
GALA ROF XL
Qual è la ricetta di un buon programma di concerto? Guai a sbagliarla, o il dessert tanto atteso stomacherà. Pienone al gala per festeggiare i quarant’anni del ROF, il 21 agosto, nella Vitrifrigo Arena. Ma non tutto fila liscio come dovrebbe, mentre qualcos’altro fila alla grande. Ecumenica la divisione in due parti, la prima dedicata all’opera buffa e la seconda a quella seria. Ma il pubblico del ROF non viene a Pesaro per ascoltare precipuamente Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola, L’italiana in Algeri e Il viaggio a Reims, opere in cartellone ovunque. Soprattutto, non viene per ascoltarle a brandelli in esecuzioni di non alto riferimento: Franco Vassallo, che canta «Largo al factotum» dal Barbiere e poi «Sois immobile, et vers la terre» da Guillaume Tell, non ha mai prima preso parte alla storia del festival, e nel farlo ravviva soltanto quell’obsoleta tradizione mandata in pensione proprio dal ROF (penoso diviene dunque vedere, seduto in platea, un interprete massimo della parte di Figaro: Roberto De Candia); «A un dottor della mia sorte» funziona eccome dentro l’opera, ma non in concerto, dove pare brano piccolo di dimensioni e sprovvisto di cornice strumentale: Bordogna vi pare quasi in gabbia; al duetto di Melibea e Libenskof, poi, Anna Goryakova e Ruzil Gatin recano buon mestiere, non certo la coppia di fuoriclasse cui i tempi d’oro hanno abituato il pubblico; e non è un favore a Juan Diego Flórez fargli eseguire ancora una volta «Sì, ritrovarla io giuro» dalla Cenerentola: dopo diciannove anni, la voce si è fatta fibrosa, ormai distante da Rossini, e balza all’orecchio soprattutto la ricerca di un nuovo repertorio; per non parlare, infine, del Finale I dall’Italiana, qui presentato in un moncone dove va sprecato un eroe della storia del festival qual è Pertusi. Incassano ovazioni, invece, Lawrence Brownlee, virtuoso e smaltato nel rondò del Conte d’Almaviva, e Nicola Alaimo, trascinante d’istrionismo nell’ultima aria di Don Magnifico. Due sole opere predispongono i brani della seconda parte, e almeno sono opere tanto fondamentali quanto rare: Ermione e Guillaume Tell. È un colpo al cuore se, con il forfait di Sergey Romanovsky, cade anche tutta la grande aria di Pirro, attesissima e non sostituita. È invece la ragione stessa di essere in sala se la pagina successiva è l’intera gran scena di Ermione, interpretata da un’Angela Meade avventurosa sì nel fraseggio, ma colossale per figura, impeto, volume, smalto, capace di trasformare in viva scena la parata di leggii e di rammentare cosa sia una voce benedetta dal cielo. Il suo recital di canto del 17, al Rossini, accompagnato in modo sopraffino al pianoforte da Giulio Zappa, l’aveva invece tradita: alla grande Meade, per dar fuoco alle polveri, serve altrettanta grandezza di partitura, ambiente, pubblico e orchestra. Passato il suo momento, la serata torna sulla terra, malgrado una sfavillante Ouverture da Guillaume Tell che, più di quella del Barbiere, procura nuovi onori a Rizzi e all’Orchestra della RAI; malgrado un duetto di Arnold e Tell dove Pertusi ricorda quanta arte abbia sempre riversato nella parte del baritono, e dove Flórez conferma invece una persistente estraneità a quella del tenore, ribadita nella successiva aria di Arnold conclusa con un superfluo Do di petto; malgrado un Finale ultimo, infine, dall’estremo capolavoro operistico rossiniano, che è paradisiaco in sé e si fregia volentieri di Meade, Flórez e Pertusi, nonché del sempre efficace coro ascolano.