di Luca Chierici
Con un parallelo che a prima vista potrebbe sembrare avventato, si è aperta la ricca stagione 2019-20 della Società dei Concerti, resa ancora più complessa e invitante per il contemporaneo svolgimento del Premio pianistico intitolato ad Antonio Mormone. In realtà di un certo Schumann si trattava e di un certo Bartók, considerata almeno la scelta dell’Ouverture dalle musiche di scena per il Manfred e la presenza di una pagina piuttosto atipica come il terzo concerto del musicista ungherese. Inquieta come non mai l’introduzione al dramma di Byron (1817), che era echeggiata quarant’anni fa a Milano in una indimenticabile versione con gli interventi recitati di Carmelo Bene e Lydia Mancinelli (alla Scala, direttore Renzetti). Il direttore tedesco Marcus Bosch, che ha esibito una considerevole padronanza di questo e dell’altro numero schumanniano in programma, la Sinfonia “Renana”, ha saputo ricreare lo spirito della musica del grandissimo compositore con quella consuetudine che è tipica dei direttori di area germanica, là dove altri colleghi si spendono a volte in complicate analisi formali. I grandi capolavori offrono due o tre chiavi di lettura differenti e in questo caso l’interpretazione della terza sinfonia poggiava soprattutto sui richiami geografici e sentimentali che per i tedeschi sono rappresentati dallo scorrere del mitico fiume e dalla grandiosità del Duomo di Colonia. Ai primi di settembre del 1850 i coniugi Schumann erano stati infatti accolti a Düsseldorf da un comitato presieduto dal musicista Ferdinand Hiller, che aveva invitato il musicista a succedergli nel ruolo di Direttore musicale dell’orchestra cittadina. Schumann scrive la nuova sinfonia durante il mese di novembre pensandola appunto come un omaggio di stampo nazionalistico: il riferimento al Reno, non voluto espressamente dall’autore, prese il sopravvento sul titolo originalmente pensato per il finale (“Nel carattere di accompagnamento a una cerimonia solenne”) e riferito all’impressione avuta nel presenziare al rito di elevazione alla porpora cardinalizia del Vescovo di Colonia Johannes von Geissel nel famoso Duomo della città, che tra le altre cose era stato di recente restaurato.
Non sempre le intenzioni del direttore sono state però tecnicamente tradotte nel migliore dei modi dalla sezione degli ottoni della Stuttgarter Philarmoniker, ma questo può accadere anche nel caso di altre orchestre blasonate. La parte più interessante della serata era rappresentata sicuramente dall’esecuzione del terzo Concerto di Bartók, affidato per la parte solistica all’ucraino Kostantin Lifschitz. Oggi quarantatreenne, Lifschitz fu presentato alla Società dei Concerti da Antonio Mormone nel lontano millenovecentonovantadue. Lifschitz era allora un ragazzino di sedici anni che si districava con grande maturità nel repertorio classico e romantico, spingendosi fino a Skriabin. La carriera lo portò presto nelle sale di tutto il mondo, con una predilezione da parte del pubblico francese che lo adottò fin dall’inizio degli anni Duemila. Le qualità migliori dell’istinto musicale del giovane si ritrovano oggi nel pianista maturo, protagonista di una carriera di notevole peso che avrebbe forse potuto meritare consensi ancora più plateali se lo stesso Lifschitz, invece di essere un professionista serissimo totalmente dedito alla musica e al proprio ruolo, si fosse abbandonato di più alle sirene del marketing e della facile accondiscendenza verso un repertorio più scontato. Il Bartók del terzo Concerto era stato ed è scelto da pianisti che sapevano anche guardare alle radici più intime della poetica del grande ungherese: interprete famoso fu ad esempio Dinu Lipatti e più recentemente anche la Argerich si è dedicata a questa pagina colma di momenti lirici. Dal canto suo un grandissimo direttore come Karajan presentò più volte il terzo Concerto negli anni Ottanta a fianco di Duchable svelandone tutti i segreti. Marcus Bosch ha accompagnato Lifschitz con buona tenuta dell’orchestra, ma saremmo portati a pensare che l’intervento del solista avrebbe meritato qualcosa di più attinente alla perpetua variazione di umori che caratterizza la paritura. Per rimanere in campo bartokiano, Lifschitz ha infine optato per un bis che attingeva dall’inesauribile calderone del Mikrokosmos, scegliendo una difficile Danza in ritmo bulgaro. In entrambi i casi il suo contributo è stato accolto da applausi calorosi.