di Attilio Piovano foto © Davide Cerati
Trionfale successo, al Teatro Regio di Torino, la sera di venerdì 29 novembre 2019, per la violinista Francesca Dego che ha interpretato l’impegnativo Concerto in re minore per violino e orchestra op. 47 del finlandese Sibelius, entro la stagione dei Concerti del Regio. Tecnica solidissima e bel suono corposo dove occorre, ma anche delicato, sorvegliatissima in ogni dettaglio, eppure – nel contempo – dall’espressività magnetica , la Dego ha saputo conquistare fin dai primi istanti in un Concerto che – si sa – divide pubblico e critica. Per alcuni un capolavoro assoluto, per altri pagina parzialmente problematica non priva di quelle verbosità e quel compiaciuto divagare che di Sibelius sono il limite invalicabile, o se si preferisce il punto di forza.
E allora, bene l’ampio Allegro d’esordio del Concerto (che fu scritto per Willy Burmester, virtuoso della Filarmonica di Helsinki, ma invero mai da lui suonato per il lungo protrarsi della gestazione dal 1902 al 1905). La Dego ne ha posto in luce gli aspetti migliori, focalizzandone con intelligenza e sensibilità il peculiare carattere espressivo: quel suo amabile e umbratile lirismo che pare germogliare a poco a poco, come un essere vivente, quella sua cantabilità smaccatamente nordica, venata di malinconia e impregnata del senso panico della natura, un movimento che poi subisce un sensibile ‘viraggio’ verso l’Allegro molto e ‘marcatissimo’ al quale l’orchestra fornisce un significativo apporto sinfonico. Quanto all’Adagio centrale dalle morbide linee e dai colori soffusi, la giovane violinista ne ha colto perfettamente l’esprit, un poco frale e pur fascinoso, quel suo fantasticare con un occhio a Mendelssohn e uno all’adorata natura finnica fatta di infinite distese di laghi e conifere a perdita d’occhio. Il vero e proprio clou nell’esuberante Finale che sfoggia passi zingareschi e richiede doti di spiccato virtuosismo, tutto pimpanti ritmi di danza e corsa a perdifiato. Applausi scroscianti e ben due bis, una pagina di Carlo Boccadoro espressamente composta per Francesca Dego, dalle suggestive atmosfere e dalla riconoscibile forma, e del ‘mago’ Eugène Ysaÿe la sua Sonata per violino solo forse più nota, vale a dire la Seconda (‘Obsession’) dall’op. 27 in cui risuona cupo e riconoscibilissimo il tema del Dies Irae.
L’Orchestra del Teatro Regio, per parte sua, è parsa in gran forma, grazie alla concertazione attenta e scrupolosa del giovane e davvero valido Lionel Bringuier, una piacevolissima scoperta, gesto efficace e molta sensibilità coloristica, in grado di tenere magnificamente in pugno la compagine; direttore che aveva scelto di inaugurare la serata nel segno del raffinato Albert Roussel, già ufficiale di marina, artista eclettico e colto dalla spiccata personalità originario delle Fiandre francesi, formatosi sotto la guida di Vincent D’Indy presso la prestigiosa Schola Cantorum parigina, autore di eleganti partiture quali l’opera Padmâvatî dall’esplicito esotismo come pure il fortunato balletto Bacchus et Ariane, in assoluto la sua pagina tuttora più celebre.
Se ne è ascoltato il relativamente raro balletto-pantomima dal soggetto vagamente simbolista Le Festin de l’araignée, o più precisamente i frammenti sinfonici: partitura di rapinosa bellezza e cristallino nitore, poco meno d’una quindicina di minuti, frutto di un Roussel poco più che quarantenne, perfettamente padrone dei propri mezzi espressivi, incline a coniugare esotismo ed ellenismo. Bringuier, con acuta sensibilità, ne ha magnificamente esaltato l’iniziale atmosfera evanescente e allora quel flauto lontanamente memore del debussiano Prélude à l’après-midi d’un faune. Ecco poi il garbato sopraggiungere degli insetti destinati a costituire il banchetto del ragno, in sette ‘pannelli’ dagli espliciti titoli e dai ritmi squadrati, accostati l’uno all’altro, non senza un pizzico di arguzia. Formiche, farfalle e libellule che danzano con leggerezza e perfino un delicato passaggio volto ad evocare i Funerailles della libellula detta ‘éphémère’, ma nessuna ombra di tragedia, niente cascami di romanticheggiante Sehnsucht solo un caleidoscopio di gradevoli immagini timbriche innervate di brio che Bringuier ha saputo sbozzare con cura certosina, sprigionando tutta la fragranza che dalla partitura promana: giù giù sino al pannello conclusivo (La nuit tombe sur le jardin solitaire), un notturno assorto e immoto, dove ancora una volta è il flauto a ‘rendere’ con mirifico effetto l’affacciarsi del mistero di una natura impassibile dinanzi all’eternarsi del ciclo vitale.
Gran bella prova dell’Orchestra del Teatro Regio che infine si è poi misurata con le atmosfere delicate, elegiache e un poco malinconiche della Suite n. 3 op. 55 di Čajkovskij. Anche in tal caso Bringuier ha saputo mettere a fuoco il ‘clima’ espressivo del lavoro, opera di innegabile charme melodico e ammirevole raffinatezza armonico-timbrica, dall’ingegnoso fluttuare ritmico che ne amplifica il fascino (al suo interno la gemma di una Valse mélancolique caracollante e imbevuta di desolazione, dal colore smaccatamente slavo). Poi ecco lo Scherzo dai ritmi pimpanti se non addirittura frenetici, rimarchevole l’episodio centrale come stranita marcia dai timbri smaglianti, mentre le sezioni estreme s’impongono per un bizzarro disegno curiosamente vicino al folklore partenopeo (forse reminiscenza del Capriccio italiano), mescolato a echi di Borodin.
Un plauso speciale a direttore e orchestra per aver saputo evitare la retorica in chiusura del vasto e un po’ dispersivo edificio del finale: dodici debordanti variazioni, concluse da un’effettistica Polacca dalle vivide accensioni, pericolosamente prossima all’enfasi, dalla quale si riscatta grazie alla magistrale strumentazione. Ne è risultata un’esecuzione brillante e animata, mai chiassosa che ha reso (quasi) accettabile anche quest’ultima sezione. Applausi scroscianti e un altro bel punto messo a segno entro la bella stagione dei Concerti del Regio.