di Attilio Piovano foto © Juzzolo
Raramente è accaduto di ascoltare la superba Shéhérazade del mago dell’orchestrazione Rimskij-Korsakov in un’interpretazione così emozionante e vivida: quella proposta per i Concerti del Lingotto, a Torino, dalla Russian National Orchestra la sera di domenica 24 novembre 2019 presso l’Auditorium ipogeo ‘Giovanni Agnelli’ progettato da Renzo Piano. Merito certo, in primis dell’ottima compagine, riapparsa a Torino dopo ben undici anni di assenza, blasonato complesso sinfonico dal suono inconfondibile e dal ricco palmarès, prima orchestra russa non governativa finanziata privatamente, fondata nel 1990 dal pianista e direttore Michail Pletnev, con l’assenso dell’allora presidente dell’Unione Sovietica Gorbaciov.
Già ne avevamo un ottimo ricordo; nel frattempo l’orchestra è cresciuta però notevolmente ed è oggi a un livello davvero elevato: ottime prime parti, eccellenti sezioni (ottoni e legni soprattutto, ma anche percussioni e archi di tutti rispetto), una qualità di suono ammirevole e molto altro ancora. E si sa, ascoltare musica russa da interpreti rigorosamente ‘russi doc’, per quanto possa apparire un’ovvietà, è garanzia di emozioni, oltre che di autenticità e genuina schiettezza.
Merito, poi anche – vale la pena di sottolinearlo a chiare lettere – del giovane direttore Kirill Karabits, classe 1976, direttore principale del Deutsches Nationaltheater, della Staatskapelle di Weimar e della Bournemouth Symphony Orchestra, vero fuoriclasse e inattesa rivelazione per il pubblico torinese del Lingotto. Gesto incisivo, sempre perfettamente funzionale al risultato sonoro che intende ottenere, Karabits tiene saldamente in pugno l’orchestra intera, ai suoi cenni strumento duttile. Non solo: deve aver compiuto un meticolosissimo lavoro di concertazione, giocando su timbri e dinamiche, soprattutto, oltre che centellinando con certosina precisione fraseggi e dettagli vari. Già, perché la Suite sinfonica Shéhérazade è uno di quei brani che per essere restituito al meglio necessita per l’appunto di una grande orchestra e di un direttore immaginifico: in grado di giocare sul timbro non meno che sul senso della forma. Solo in tal modo le peripezie del marinaio Sindbad, la cui nave si incaglia sugli scogli in uno dei passi più suggestivi – e in orchestra pare di sentire il drammatico collassare del vascello, sospinto da venti terrificanti – finiscono per ‘scorrere’ idealmente ‘dinanzi ai nostri occhi’. Solo con un’orchestra di livello e un direttore di gran classe non mancano di sprigionarsi ancora una volta – come è accaduto – mille aromi speziati nel quadro persiano impregnato di policromo esotismo.
Un direttore ammirato per la capacità di trascorrere con naturalezza e souplesse tra i vari metri ritmici di non pochi passi che si succedono a distanza ravvicinata: se il direttore non è più che attento qualche minimo ‘sbandamento’ appare inevitabile. E invece tutto era perfettamente in asse, ma anche elastico e impregnato della giusta flessuosità. Insomma un’esecuzione davvero coinvolgente. La prova del fuoco è stata nel lungo movimento centrale che, se affidato a mani poco esperte, finisce – diciamolo – per ingenerare un senso di saturazione. Al contrario Karabits ha saputo mantenere desta l’attenzione degli ascoltatori ad ogni istante, quasi ad ogni battuta. Un vanto per lui e per l’ottima orchestra.
A dominare su tutto – si sa – la femminilità seducente e fascinosa della principessa Shéhérazade, una tra le creazioni più intense delle Mille e una Notte, impersonata dal suono conturbante di un violino solista, a far da collante tra i singoli quadri. E qui occorre registrare l’unica nota di demerito della Russian National: per Shéhérazade non basta una spalla di pur vasta esperienza e di navigata professionalità, bensì occorre un vero e proprio solista, tale da dare i brividi, giù giù sino all’estinguersi di quella lunghissima nota finale su un armonico acutissimo. Mentre invece il primo violino della Russian, spiace doverlo rimarcare, non si è rivelato all’altezza del ruolo. Forse non era in serata, può succedere, sta di fatto che il dettaglio – lungi dal mettere in ombra un’esecuzione di alto livello, ha finito per sgualcirne un poco la fragranza. Ciò nonostante al termine della celeberrima pagina la sala gremita ha tributato un successo a dir poco enorme a direttore ed orchestra che volentieri hanno risposto eseguendo come bis il poco noto (squadrato e coloratissimo) Valzer dalla Suite del balletto Le sette bellezze di Kara Karayev, pagina seducente e striata di melanconia tipicamente russo-balcanica.
In apertura di serata si era ascoltato il ‘sempre verde’ Primo Concerto di Čajkovskij dallo spettacolare ‘attacco’: con quel vero e proprio motto, siglato dal rimbombare del timpano; solista di lusso lo stesso Pletnev, fondatore – s’è detto – della Russian. Fin dal guardingo stacco del tempo del celeberrimo ed emblematico ‘gesto’ di apertura, s’è compreso che la sua sarebbe stata un’interpretazione diversa dalle solite cui siamo avvezzi, per lo più occasione di esibire atletismi e virtuosismi abbacinanti, ma anche vacui. Pletnev, al contrario – tecnica solidissima, ma mai esibita – intende il Concerto in modo assai personale ed ama porne in luce specie i lati intimisti, umbratili: e ciò non solamente nel tempo lento dove ha sfoggiato capacità introspettive, sonorità delicate, suono timbrato e raffinatezze di tocco davvero uniche, bensì anche nel primo e nel conclusivo movimento, concedendo appena qualche cosa all’effettismo nel mulinare delle mani nel celeberrimo passo in ottave: palestra per generazioni di virtuosi. Del resto già dalla rinuncia allo Steinway d’ordinanza in favore di un Kawai dal suono ambrato se non cupo, privo di quei bassi ruggenti che ci si aspetta dal gran coda e della brillantezza tipica ‘dell’ammiraglia’ dei pianoforti, appare indicativa di un modo di intendere la partitura di Čajkovskij. Anche certe improvvise asprezze timbriche e perfino certi ritardando e accelerando (che hanno messo a dura prova il direttore nello stargli dietro) erano rivelatori di un suo modo specifico di suonare Čajkovskij. Prendere o lasciare. O ammirare incondizionatamente oppure eccepire, paragonando la ‘sua’ intepretazione a mille altre. Pubblico e critica a fine esecuzione sono parsi del tutto conquistati, massimamente dal tono leggero e scanzonato del finale, pur sempre con una sonorità sorvegliatissima, ma con estrema naturalezza. E, come si diceva, unica captatio benevolentiae la massima sonorità raggiunta nel macinare ottave, in chiusura con gesto plateale.
Agli applausi trionfanti Pletnev ha risposto con ben due bis, suonandoli con l’aria un po’ snob di un dandy che sembri passare di là per caso e sornione pare dire al pubblico qualcosa del tipo: «bah, se proprio insistete, ma solo perché insistete, suonerò ancora per voi…». E allora ecco Giugno (Barcarola) dalla Suite Le Stagioni op. 37 (ancora di Čajkovskij, ovviamente), quindi di Chopin la celebre e amatissima Mazurka op. 67 n. 4 suonata molto ‘alla russa’ e di fatto sui generis, sì da conquistare ulteriormente il pubblico.