di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Dopo molti anni di assenza, al Teatro Regio di Torino, a partire dalla sera di mercoledì 12, febbraio 2020, è andato in scena Nabucco (per complessive dieci recite, con un doppio cast), titolo tanto inesorabilmente ‘anacronistico’ quanto eternamente gradito al pubblico dei melomani. E va bene così, ci mancherebbe. Fin dal Preludio ovvero dalla iniziale Sinfonia si è intuito che il vero trionfatore sarebbe stato Donato Renzetti, direttore di vasta esperienza, teatrale come pure di ambito sinfonico, e notevole sensibilità. Renzetti – occorre ammetterlo – ha fatto davvero l’impossibile per tentare, entro i limiti della ragionevolezza, se non di espungere (sarebbe ovviamente impossibile), quanto meno di attenuare quegli aspetti per così dire nazional-popolari e pre-risorgimentali che di Nabucco sono l’ineliminabile marchio di fabbrica: rendendo non già eleganti, perlomeno accettabili i rataplan e le marcette corrive e bandistiche che del primo Verdi, si sa, costituiscono al tempo stesso il punto di forza ed il limite invalicabile. Quei passi, insomma, che i tedeschi finiscono per bollare esplicitamente come um-ta-ta-musik e che spesso stridono ormai ai giorni nostri in maniera talora perfino risibile con la pregnanza della drammaturgia, creando iati insanabili, o se si preferisce – con linguaggio più moderno e giornalistico – scavando un gap, un solco profondo e incolmabile, tra il piano musicale, per l’appunto, e quello della complessa e inattuale vicenda.
Renzetti ha potuto avvalersi di una compagine in gran forma, quella del Teatro Regio, che ha fornito in complesso una buona prova, risultandone ben assecondato; ha impresso tempi giusti e baldanzosi ove occorre, e pazienza per qualche eccesso dinamico e qualche piccola concessione al pubblico, sapendo però anche indugiare nei passi intimistici e cameristici (valorizzando le prime parti): così ad esempio nel superbo terz’atto dove ad emergere, forse per la prima volta in maniera passabilmente compiuta, è una figura di padre già peculiare della drammaturgia verdiana (è quanto accade poi da Luisa Miller a Rigoletto, giù giù sino ai capolavori della maturità). Insomma Renzetti in complesso ha per lo più centrato la ‘tinta’, per dirla con terminologia verdiana, di una partitura irrimediabilmente datata, quanto meno a parere di chi scrive, lontana, piaccia o no, come le galassie siderali dal gusto odierno: e che pure (fascinoso paradosso) continua a sedurre i pubblici di tutto il mondo (per di più in presenza di un libretto di rara bruttezza firmato dal non geniale Temistocle Solera: gli esempi potrebbero essere innumeri, ne basti uno solo: «Il terror mi fa demente». Non occorre aggiungere altro).
E dunque – conseguentemente, data la popolarità dell’opera stessa – innegabile è stato il successo, decretato a fine serata da parte di un pubblico tutt’altro che freddo (di solito alle prime è abbastanza raro, ma senza chiamate a scena aperta) dinanzi ad nuovo allestimento del Teatro Regio in co-produzione con il Teatro Massimo di Palermo (produzione sostenuta da Reale Mutua). Di un allestimento del tutto tradizionale si è trattato, con scene di Dario Gessati lineari, semplici e fastose al tempo stesso di fatto funzionali, nella loro neutralità (imponenti quinte geometriche che scorrevano sul fondo e poco più). Qualche (inutile) effetto speciale, come l’incendio di una corona sulla destra del palcoscenico, durante il Preludio, chissà mai a significare che cosa e altre trouvailles buttate là un po’ a caso. Costumi (bellissimi) di Tommaso Lagattolla, come fuori dal tempo, in realtà in bilico fra effetto ‘antica Babilonia’ e Star Wars. La regia decisamente convenzionale di Andrea Cigni muoveva le masse in maniera simmetrica, ma anche imponendo una gestualità esibita e talora un poco goffa (spostare oggetti in scena fingendoli pesantissimi e mimando sforzi sovrumani è espediente datato e un poco prevedibile). Dall’alto calavano fogli, poi raccolti dal coro che vi leggeva come da una partitura: forse allusione ai futuri moti del ’48 e all’abusato (e fin famigerato) acrostico W V.E.RD.I. o magari all’indimenticabile film Senso di Visconti, ma il tutto ingenerava una sorta di effetto déjà-vu. Quanto al coro testé citato, e che in Nabucco riveste un ruolo di assoluta rilevanza, come del resto un buona parte del ‘primo Verdi’, ben istruito da Andrea Secchi e meritatamente applaudito, è risultato ottimo e valido protagonista (e non solo nell’atteso «Va’ pensiero»). Luci molto sagaci e intelligenti quelle di Fiammetta Baldiserri, mai banali, costantemente al servizio della drammaturgia.
Ed ora le voci. Non sempre udibile il baritono Giovanni Meoni nei panni del protagonista che dà il titolo all’opera: ci si sarebbe aspettati qualche emozione in più che ahinoi non è pervenuta; un Nabucco corretto («Chi mi toglie il regio scettro», «Dio di Giuda!… O prodi miei seguitemi»), ma per lo più mancante di vero mordente (bene il duetto con Abigaille «Donna chi sei»). Il pubblico ha beneficiato in due sole recite del beniamino Leo Nucci, mentre Damiano Salerno era il titolare del ruolo nel secondo cast). Aitante, ma talora decisamente un po’ sopra le righe, ovvero fin troppo esuberante la vocalità del tenore Stefan Pop (Ismaele), benino l’esperto Riccardo Zanellato, un icastico Zaccaria gran pontefice degli ebrei («Tu sul labbro dei veggenti»), che avremmo pur tuttavia voluto un poco più autorevole e memorabile; sul versante femminile ha convinto il mezzosoprano Enkelejda Shkosa (una Fenena toccante e a tutto tondo, come di rado capita di incontrare) mentre il soprano Csilla Boross nel ruolo di Abigaille (che avrebbe dovuto essere ricoperto da Saioa Hernández, poi venuta meno), in presenza di una parte obiettivamente impervia, ha destato però non poche perplessità con le sue intemperanze dinamiche francamente eccessive e i passi di agilità affrontati in maniera non sempre immacolata.