di Luca Chierici foto © Paolo Andreatta
Il recital che Mikhail Pletnev ha tenuto lunedì scorso per le Serate Musicali si prestava bene a evocare argomenti che, tecnicamente parlando, con la musica e il pianoforte avrebbero poco a che fare, sconfinando piuttosto nella psicanalisi. Non è difficile infatti leggere nelle interpretazioni di questo straordinario strumentista la trama di una sofferenza interiore che è essa stessa – nel senso positivo del termine – sublimata attraverso atteggiamenti interpretativi inusuali e quasi sempre di interesse specifico altissimo. Altro che struggimento, malinconia, spleen, qui c’è sotto dolore allo stato puro, trasfigurato in un messaggio musicale di altissimo livello artistico all’interno del quale il suono del pianoforte si materializza quasi come una patina meravigliosa sotto la quale si intravedono abissi di disperazione. Persino nelle Stagioni di Čajkovskij, nate come innocui supplementi a una rivista e in realtà radiografie dell’animo del compositore, lacerato da mille dubbi e contraddizioni extra-musicali, Pletnev dimostra davvero di possedere una sensibilità simile a quella dell’autore e ingigantisce fino allo strazio alcuni dei piccoli quadretti, apparentemente innocenti, che dovrebbero illustrare tutta una serie di luoghi comuni sul procedere dei singoli mesi nel calendario. Certamente si tratta di momenti particolari già scandagliati in tal senso da anime sensibili quali quella di Cherkassky, ma sempre nel contesto del singolo foglio d’album, mai in quello del complesso caleidoscopio che va a formare l’integrale. Era comunque dai tempi di una precedente lettura dello stesso Pletnev di ben trent’anni fa e di una più antica (e diversa) di Igor Zhukov del 1979 che non si ascoltava nulla di simile nella sala del Conservatorio.
Si discuteva con sagge persone sul valore dell’interpretazione di Pletnev in generale, e c’è chi dice che il pianista russo stia andando oltre persino rispetto ai suoi modelli, tra i quali vi sono Horowitz e Michelangeli. Eppure Pletnev non arriva alla sublime arte horowitziana del nascondere il male di vivere attraverso il suono e il fraseggio. Horowitz è a mio parere ancora più diabolico nel tentare di dissimulare il rovello interiore e attraverso una diabolica arte della seduzione ci lascia sempre sull’orlo del baratro senza (quasi) mai farci intravedere il peggio. Pletnev va oltre, in questo senso, e il suo gioco straordinario di raffinatezze pianistiche non riesce a dissimulare un senso di vuoto, di lacerazione, che sono sempre in agguato e che spesso sono utili veicoli per illuminare di luce diversa i testi musicali da lui affrontati. Se nel caso di Čajkovskij l’affinità tra compositore e interprete è palese, il discorso si complica per ciò che riguarda la prima parte del programma dell’altra sera, che comprendeva due sonate di Schubert. La parte più interessante, per chi scrive, perché costituiva un esempio da manuale di come si possa trasformare un testo originale in qualcosa che va ben al di là delle intenzioni dell’autore, pur rimanendo non tanto entro i confini di un rispetto testuale assoluto (che non c’era) ma nel campo delle possibili ipotesi interpretative, anche se a volte spinte ai limiti estremi . Che Schubert non sia solamente l’autore di una collezione di belle melodie e di atteggiamenti edificanti è cosa oramai arcinota. Però non è ancora stata scritta (in mancanza di notizie originali precise) una biografia schubertiana che vada a scavare nel profondo e che riveli come e per quali motivi la superficie a volte spensierata del suo melodiare, persino certi allargamenti del significato della forma-sonata, nascondano ben altre profondità espressive. Possibile che nessun musicologo in possesso di solida preparazione psicanalitica sia in grado anche solo di confrontare le personalità di Beethoven e di Schubert e di trarne degli spunti per una seria analisi di due universi che sono davvero inconciliabili ?
La lettura della Sonata in la minore D537 che apriva il programma era sicuramente debitrice nei confronti di quella famosissima di Michelangeli, e non solamente per la ricerca timbrica. Pletnev si spingeva però più in là e si lasciava alle spalle la politezza neoclassica del pianista bresciano per lanciare all’ascoltatore degli spunti interrogativi interessanti, quanto appunto probabilmente lontani dallo stile dell’autore. La stessa cosa avveniva con la Sonata in la maggiore D664, quella che i professionisti del pianoforte si ostinano a considerare relativamente facile (o facile tout-court) e che invece pone più di un problema tecnico-interpretativo. Pletnev ne ha scandagliato tutti gli aspetti di fraseggio e di timbrica con una lucidità incredibile e posto in risalto particolari preziosi che non erano stati colti persino da colleghi del passato celebri per il loro apostolato schubertiano.
Il pianoforte di Pletnev è uno Shigeru-Kawai che ogni pianista vorrebbe avere in casa, talmente bello e differenziato è il suo suono nella regione grave, media e acuta. Si tratterà sicuramente di uno strumento preparato a dovere secondo le richieste del proprietario, ma è fuori dubbio che sembra essere il veicolo ideale per le più ardite sperimentazioni del pianista. Quanto la caratteristica di questo strumento influisca sui criteri interpretativi di Pletnev è difficile stabilire: si ha a volte l’impressione che certe estreme raffinatezze nel sottolineare disuguaglianze o simmetrie nel fraseggio siano quasi suggerite dalla timbrica del pianoforte stesso. Non si è comunque mai colti dal sospetto, come accade ad esempio nel caso di Volodos, che gli esiti di quest’arte sublime del tocco venga utilizzata dal pianista per fini che non siano puramente musicali, nel senso di immanenti al carattere narrativo delle opere o alla chiarificazione della struttura di una frase.
Il pubblico non era numeroso, e questa situazione oggi tipicamente milanese ci fa molto pensare ai delicati equilibri che regolano l’esistenza delle maggiori organizzazioni concertistiche in città, con i loro problemi di budget, di concorrenza, di differente trattamento da parte dello Stato per ciò che riguarda i contributi pubblici. E anche di un uso più o meno accorto del marketing, della pubblicità attraverso i social media e così via. Per fortuna è sembrato che la qualità, più che la quantità, delle persone presenti sopperisse all’infelice impressione di semivuoto che era leggibile negli occhi del pianista al suo ingresso in sala. Pletnev ha però probabilmente capito di trovarsi di fronte a un pubblico più che attento e rispondente con acclamazioni alle sue proposte, e ha concesso ben tre bis spaziando da Mozart, a Schubert e a Chopin.
Credo che la sala fosse semivuota per il programma… Oramai tutti i grandi pianisti quando vengono in Italia presentano programmi a mio avviso noiosi.. io stesso avrei voluto assistere al concerto ma non le sonate di Schubert…