di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
Nella stagione 2020 del Teatro Comunale di Bologna si legge più che mai il chiaro, libero e felice progetto artistico del nuovo sovrintendente Fulvio Macciardi: tornano a frotte i grandi artisti, i titoli coraggiosi e il pubblico fedele, come non accadeva sotto più di una gestione precedente. Allo spettacolo inaugurale, con le sue cinque recite dal 24 al 31 gennaio, sono corrisposti gesti autorevoli: un’opera di notevole impegno e peso simbolico quale Tristan und Isolde di Wagner, un allestimento non nuovo ma individuato in un forbito circuito internazionale, una locandina musicale assemblata con acume e ancor più salda nei conseguimenti; infine la promessa per la quale questo spettacolo sarà solo il primo, di cinque, a ravvivare la storica ma negletta fede wagneriana della città di Bologna: dalla prossima stagione al 2024, il Teatro Comunale presenterà infatti anche Lohengrin, Parsifal, Der fliegende Holländer e Tannhäuser. Uno solo è il legittimo spauracchio del dare oggi le opere di Wagner in Italia (e non sarà un caso che il cartellone nazionale, lo scorso anno, abbia lesinato la miseria di soli tre suoi titoli): le nostre orchestre sono in costante progresso tecnico ma paiono ancora lontane dall’idiomatica assimilazione del “suono wagneriano”, oggi – nell’epoca del mondo che si rimpicciolisce tra un volo e l’altro – sempre più facilmente esperibile nelle sale di Berlino, Dresda o Vienna.
Ma come il miracolo riuscì a Christian Thielemann nel Tristan und Isolde bolognese del 1996, così si è appena ripetuto, con altro indirizzo interpretativo, in questo diretto da Juraj Valčuha. A dare una misura perlopiù visiva, gli bastano soltanto quattro contrabbassi, in luogo degli otto d’ordinanza: il suo è un Tristan und Isolde che canta all’italiana innanzitutto tra le file di strumenti, tornendo amorevolmente l’arco dinamico delle frasi, ponendo la melodia in trepidante primo piano, aprendo luci timbriche sul pur nero pessimismo, accompagnando i cantanti con una sollecitudine che vieta nel contempo ogni pigrizia. È il Wagner il più italiano, il più rifinito e il più originale che sia dato ascoltare sotto le Alpi da molto tempo in qua. Gli regge lo strascico lo spettacolo con regìa di Ralf Pleger, scene di Alexander Polzin, costumi di Wojciech Dziedzic, luci di John Torres e coreografia di Fernando Melo: viene dalla Monnaie di Bruxelles e consiste di fatto in tre installazioni artistiche contemporanee, una per atto, suggestive ma insufficienti a reggere da sé sole blocchi drammaturgici già tanto spaziosi e immobili. Eppure non uscirà dal ricordo il nodoso albero ideato come luogo per il duetto d’amore, con quei rami fatti dalle braccia di danzatori e con quella carezza che, tramite le loro mani, sale dalla punta delle dita di Tristan fino al corpo di Isolde assiso sul punto più alto.
Degnissima è la resa interpretativa dei protagonisti. Quel macina-recite di Stefan Vinke dà adito a un Tristan insolitamente generoso, estroverso e appassionato, e con la solida tenuta si fa perdonare qualche fibrosità dell’emissione e un’intonazione talvolta opinabile. Una meno inossidabile resistenza ma una più attenta musicalità caratterizzano il suo “doppio”, Bryan Register, latore di un personaggio più timido e dubbioso in perfetta reciprocità con la relativa partner. Complementare è infatti la proposta delle due Isolde: la prima, Ann Petersen, reca in dote non l’abituale e ieratico metallo di una Brünnhilde, bensì la luminosa e inusuale tenerezza di una Sieglinde, restituendo al personaggio una giovinezza spesso negata; la seconda, Catherine Foster, vanta invece una più impetuosa risonanza e pone in primo piano il fraseggio ironico, caustico, tagliente, originale poiché via via smussato con l’evolvere psicologico della parte. Nel secondo rango, un lusso tira l’altro: si parte dal Re Marke di Albert Dohmen, con la sua cavata non meno che organistica; si procede con la Brangäne di Ekaterina Gubanova, sontuosa oltre ogni recente abitudine; si chiude con il Kurwenal di Martin Gantner, squillante nel canto e sferzante nell’accento. Le parti comprimarie si cumulano con neutra stilizzazione in Tommaso Caramia, per Melot e il Pilota, e in Klodjan Kaçani, per il Marinaio e il Pastore.
Intorno al resoconto sull’inaugurazione lirica, opportuno è uno sguardo all’attività sinfonica, soprattutto poiché attraverso di essa sembrano passare informazioni sulle prospettive del teatro bolognese. La stagione concertistica del 2019 si è conclusa il 28 novembre nel Teatro Manzoni, con una Sinfonia n. 5 che confermava lo strutturarsi di un ciclo intorno a Mahler, nonché con la direzione di un musicista di chiara fama qual è Dan Ettinger. Lo si vede di rado in Italia, ma lo si ascolta ambientarsi con immediata coscienza innanzi all’orchestra del Teatro Comunale: chiede di seguirlo in un discorso musicale fitto di imprevedibilità agogiche e nebulizzazioni timbriche, e in cambio garantisce l’ascolto degli strumentisti nella mai sofisticata esposizione dei loro contributi. È un esempio di vaccino dal provincialismo. Nel primo concerto del 2020, il 4 febbraio, si parte invece con l’omaggio a Beethoven, mediante la Missa solemnis che impegna anche il coro felsineo, le preparate voci sole di Siobhan Stagg, Stefanie Iranyi, Antonio Poli e Felix Speer, per non dire soprattutto del concertatore Asher Fisch: da lui viene una lettura compatta, levigata, poderosa, tradizionalmente non interessata alla filologìa di asprezze e trasparenze. Quest’anno, a Bologna, gli spetteranno altri due concerti e le recite di Adriana Lecouvreur e Otello; manca solo l’annuncio di nomina alla direzione musicale.