di Luca Chierici foto © Clarissa Lapolla
Accanto alla pur ridotta produzione teatrale di quest’anno, il Festival della valle d’Itria ha centrato il colpo affiancando alla programmazione un paio di recital di canto che hanno attirato l’attenzione del pubblico oltre ogni aspettativa. In particolare la serata di venerdì 31 Agosto era dedicata a un programma ambizioso quanto esteso in ordine cronologico, spaziando dal ’600 al ’900 attraverso una serie di proposte alquanto raffinate. Quale cantante poteva reggere un impaginato simile (peraltro cucito alla perfezione sulle sue doti musicali e a suggello di una carriera più che trentennale) se non Anna Caterina Antonacci, mezzosoprano acuto – ma la definizione è davvero limitativa – che incarna uno dei rari esempi di professionalità, intelligenza, curiosità verso un repertorio eterogeneo? L’impressione che si è avuta durante la serata è stata innanzitutto quella di un rito di ringraziamento, un omaggio verso una protagonista della vita musicale degli ultimi decenni che avrebbe forse avuto bisogno di un riconoscimento ancor più grande, al di là dell’esterofilia che purtroppo molte volte ci affligge. Ma per la Antonacci non si tratta solamente di celebrare una carriera straordinaria che l’ha vista tra l’altro partner elettiva di direttori quali Abbado e Muti: ciò che colpisce di più nei suoi confronti è sia la versatilità del repertorio che l’amore verso particolari comparti musicali, anche lontanissimi tra loro come giustamente il programma martinese ci ha ricordato. Programma che, con un opportuno stacco strumentale, ha toccato autori quali Monteverdi e Poulenc che rappresentano due aspetti opposti delle corde più intime nell’arte interpretativa di questa illustre cantatrice.
La Antonacci non ha certo la necessità di (ri) presentarsi attraverso un repertorio comune alle grandi colleghe, che dispensano i momenti più tradizionali del teatro in musica. Non ne ha bisogno perché ha dimostrato attraverso tutta la sua carriera come potesse affrontare luoghi ben noti del belcanto nostrano (da Bellini a Cherubini e Rossini), del grande repertorio francese (da Berlioz a Bizet, da Halévy a Poulenc e Reyer), del Mozart più complesso. E poi le tutt’altro che rare incursioni nelle musiche rinascimentali e del ’600, nel repertorio più segreto di Cimarosa (dove l’ascoltai per la prima volta a Fermo in anni lontani, ne Le astuzie femminili e ne I due baroni di Roccazzurra, e già da quel momento ci si accorgeva di trovarsi di fronte a un’artista che andava incontro a una carriera luminosa), il meraviglioso Gluck con Muti, i capolavori mozartiani con Abbado. Ma anche la partecipazione alle riscoperte che soprattutto alla fine degli anni ’80 e durante gli anni ’90 rallegravano la nostra vita di ascoltatori, da Manfroce a Marschner, da Paisiello a Pergolesi e Porpora a Mayr e Mercadante. In tutti i casi ne uscivano i tratti di un’artista che andava al di là del segno per approfondire attraverso il fraseggio il carattere dei personaggi e giungere a una definizione totale dell’evento sonoro con una consapevolezza che è davvero caratteristica di pochi, grandi artisti.
L’impaginato del concerto martinese tentava di rinchiudere in una milk bottle un condensato di tanta carriera, di tante preferenze, e la scelta è caduta sul versante antico e su quello moderno, con un duplice intervento di accompagnamento che divideva nettamente in due una serata non differenziabile per gli odierni criteri che proibiscono gli intervalli nel corso delle rappresentazioni. Il sostegno era dato nella prima parte da Antonio Greco, concertatore al cembalo e all’organo dell’orchestra Cremona Antiqua. Qui, con opportuni stacchi strumentali, la Antonacci ha ricordato il proprio amore monteverdiano nel Lamento di Arianna (non si provava una emozione simile dai tempi di una ispiratissima Cathy Berberian), nel Lamento della Ninfa, nel «Disprezzata regina» da L’incoronazione di Poppea e ha concluso trionfalmente con «Quel prix de mon amour», dalla Médée di Charpentier. La seconda parte, senza soluzione di continuità, vedeva la partecipazione di Francesco Libetta al pianoforte. Non si capisce ancora come mai un pianista così raffinato non venga più frequentemente chiamato a suonare a fianco di artisti così prestigiosi. In questo caso non si trattava solamente di un accompagnamento corretto e partecipe: Libetta si muoveva con proprietà stilistica assoluta e soprattutto respirava con la Antonacci la medesima partecipazione intensa nei confronti della musica. Non a caso uno dei suoi maestri e mentori, Aldo Ciccolini, amava quando possibile accompagnare cantanti di ben nota fede cameristica come la Schwarzkopf (e fortunatamente una registrazione di uno di quegli incontri è rimasta negli archivi per la posterità). Lo stesso Libetta ha eseguito da par suo interventi di stacco quali Jeux d’eau di Ravel, e la svolazzante trascrizione di Gieseking del già svolazzante straussiano Ständchen.
I momenti più emozionanti di questa parte otto-novecentesca della serata si sono condensati innanzitutto nell’esecuzione di tre liriche di Martucci, dalle “Canzoni dei ricordi”. Non si tratta qui di una semplice inserzione italiana che giustifichi lo scarso interesse nostrano per la liederistica, bensì di un omaggio più che naturale a un mondo quasi gozzaniano e pascoliano di “piccole cose” caro a interpreti come la Freni o la Frittoli, non a caso accompagnate da un direttore sensibile come Riccardo Muti, e prima ancora alla Tebaldi, e a Toscanini a fianco della Castagna. La voce della Antonacci è sembrata piegarsi alle richieste di questi testi e di questa musica con una partecipazione assoluta, complice l’altrettanto sensibile intervento di Libetta. Con La Dame de Monte-Carlo e Les chemins de l’amour il programma virava verso uno degli autori più cari alla “Antonacci francese”, tra le altre cose interprete acclamata de La voix humaine. E qui tutto lo humour, la conoscenza approfondita della lingua, la perfetta aderenza stilistica sono esplosi nella loro interezza portando il pubblico alle acclamazioni finali. Che venivano premiate con una esecuzione quasi sussurrata della Habanera dalla Carmen pensata apposta per sottolineare una interpretazione alternativa e inedita di una momento così noto. Applausi a non finire, anche per i bravissimi Manuel Amati, Eugenio Di Lieto e Vasily Solodkyy che erano intervenuti nella prima parte di una serata caldissima, non solamente per ragioni musicali.