di Luca Chierici foto © Daniele Corricciati
Si trasloca ancora, da Spongano a Lecce e ora all’Abbazia di Cerrate, luogo magnifico e fiore all’occhiello del Fai che ha patrocinato qui un restauro serio e rispettoso dell’ambiente: il Festival “Classiche Forme” organizzato da Beatrice Rana ospita quest’anno, pur con tutte le difficoltà del caso, tre concerti principali nello spiazzo antistante l’abbazia, rischiando – nel senso migliore del termine – che l’attenzione dello spettatore venga attirata dall’architettura romanica e dagli affreschi che si intravedono attraverso il portale. L’inaugurazione è avvenuta il 24 luglio e ha visto la partecipazione di un gruppo di giovani solisti entusiasti nel loro ruolo di presentatori di tre pagine ad alta densità di contenuti, seppure stilisticamente diversissime tra loro. Un Mozart concertante, quello del Quartetto in re maggiore K 285 per flauto, violino, viola e violoncello, ha aperto la serata. Ed è subito grande musica che ci trasporta indietro nel tempo (1777) e in tutt’altra ambientazione, vista la carica straordinaria del messaggio del salisburghese. Ancor più straordinaria nell’Adagio centrale in si minore, momento eccelso di cantabilità scritto per uno strumento che, come è noto, l’autore non amava affatto. Qui è piaciuta la partecipazione intensa di Silvia Careddu, che ha contagiato gli altri tre solisti, Andrea Obiso al violino, Giuseppe Russo Rossi alla viola e Ludovica Rana al violoncello. Li ritroveremo in parte più avanti, nel Trio in re minore per pianoforte, violino e violoncello di Mendelssohn e nella Sonata op.94 di Prokofiev, eseguita quest’ultima nella versione per flauto e pianoforte.
Il Trio di Mendelssohn aveva suscitato l’entusiasmo persino di Robert Schumann, che nella sua recensione del 1840 parlò di «Trio-maestro del presente, come a loro tempo furono quelli di Beethoven in si bemolle [il Trio dell’Arciduca] e quello di Schubert in mi bemolle … Che cosa debbo dire ancora su questo Trio che, appena sentito, ciascuno non abbia già detto da sé? Più felici, senza dubbio, quelli che l’hanno udito dal creatore stesso. Se vi possono essere dei virtuosi più arditi, altri difficilmente però saprebbero rendere le opere di Mendelssohn con la freschezza così incantevole del compositore stesso». Beatrice Rana ha dominato le difficoltà di molti interventi pianistici (terzine rapidissime, arpeggi di settima di diminuita che l’autore aggiunse su consiglio di Hiller), la sorella Ludovica ha esposto con un appassionato vibrato il tema principale di apertura, la voce del Guarneri di Andrea Obiso si è unita con slancio a quelle dei compagni di viaggio.
In precedenza era stata eseguita appunto la grande Sonata in re maggiore di Prokof’ev, originariamente concepita per flauto e pianoforte, ma poi in un certo senso sostituita nelle preferenze del pubblico dalla versione per violino, chiesta a gran voce all’autore da David Oistrach, che aveva presenziato alla prima esecuzione del lavoro nel 1943. Qui Beatrice Rana doveva fare i conti con il pianista di quella storica serata, Sviatoslav Richter, e ha condotto con Silvia Careddu una lettura molto intimista di un lavoro che spesso viene eseguito con fin troppo entusiasmo dai violinisti. Al termine del concerto si è sviluppato un insolito contraddittorio tra artisti e pubblico (che aveva inviato ai primi, via whatsapp, specifiche domande). Il tutto presentato dalle sagge parole di Ilaria Borletti Buitoni, Presidente del Fai e della Società del Quartetto di Milano, che ha tra le altre cose ringraziato i solisti per la loro disponibilità.