di Luca Chierici
Notevole successo ha avuto alla Scala la prima esecuzione de I Capuleti e i Montecchi, opera che Bellini aveva scritto per Venezia nel marzo del 1830, che era approdata alla Scala pochi mesi dopo, e che aveva avuto una fortuna discontinua.
Interrotte le rappresentazioni nel 1861, il teatro milanese ne aveva affidato il recupero a Claudio Abbado nel 1966 e poi a Riccardo Muti riportando a galla un titolo che si è poi imposto con una certa frequenza sui palcoscenici di tutto il mondo, anche se con esiti ben lontani dai successi della produzione belliniana più conosciuta.
A volte il destino di un titolo operistico in teatro sembra essere non poco influenzato dalle prime reazioni del pubblico, a partire dagli esordi del titolo stesso. In primo luogo la scelta ottocentesca, molto opinabile, di cancellare gran parte del secondo atto belliniano e di averlo a lungo sostituito con l’analoga parte finale del Romeo e Giulietta di Vaccai è oggi giustamente pietra dello scandalo, anche se dal punto di vista biecamente teatrale si può immaginare come il finale belliniano, notturno, chiuso su se stesso, troppo in là per i tempi, avesse davvero poche armi per soddisfare un pubblico assatanato di bravure e di grandi sonorità. Poi si è ripetuto ancora, a distanza di tanti anni, quell’effetto che era già stato notato dai primi commentatori, relativo al confronto tra le estensioni e i timbri sopranili e mezzosopranili dei due protagonisti principali. In questo caso la bellissima voce dell’Oropesa rischiava facilmente di porre in secondo piano quella della Crebassa ma non perché esistesse davvero una così grande differenza di valore tra le due, ma proprio perché era naturale che questa mancanza di affinità timbrica deponesse inesorabilmente a favore del ruolo di Giulietta. E non dimentichiamo che questo confronto a favore del soprano era già avvenuto anche in tempi più recenti quando ad interpretare i due ruoli erano state la Anderson e la Baltsa ai tempi di Muti. Nel nostro caso Marianne Crebassa si è imposta invece fin dall’inizio con coraggio e indubbio carisma in un ruolo tutt’altro che facile e ha ben potuto condividere con Giulietta i successi di una serata che si è svolta tutta contando sulla presenza delle due grandi protagoniste. Alla Crebassa sono giunti particolari applausi dopo la sua cavatina “”La tremenda ultrice spada”, e al termine in quel “Deh! Tu, bell’anima” che sigla il suo addio all’amata. La Oropesa si è rivelata a partire dalla grande scena che culmina con la celebre cavatina “Oh quante volte “ e da quel momento il favore del pubblico non l’ha più abbandonata. Perfettamente intonata, timbricamente magnifica, omogenea, stilisticamente ineccepibile, si è nuovamente rivelata una delle voci più interessanti di quest’epoca. Crebassa e Oropesa si sono presto unite nel loro primo duetto che ha scatenato l’applauso del pubblico.
Tebaldo era il tenore Jinxu Xiahou, fin troppo presente e squillante, che ha esordito senza particolare successo ma con proprietà stilistica con la sua cavatina di ingresso. Un ruolo, il suo, che forse avrebbe richiesto una presenza più “italiana” ma che è stato portato a termine più che onorevolmente. Il basso Jongmin Park era un Capellio deciso e autoritario che ha ricevuto una buona dose di consensi ma che contava fin troppo su un vocione pervasivo. Lorenzo di lusso era Michele Pertusi cui sono stati tributati consensi sinceri anche se un po’ diretti “alla carriera”.
Speranza Scappucci ha preso in mano la partitura belliniana con convinzione ma è apparsa più a proprio agio nell’incipit, nel sottolineare alcuni interventi orchestrali di spicco (il corno a commento della grande scena di Giulietta !) che in qualche sezione del secondo atto, dove di tanto in tanto era in affanno il rapporto tra orchestra, cantanti e coro, forse peggiorato da certe infauste scelte registiche. A lei sono state tributate vere e proprie ovazioni, forse un poco esagerate e spiegabili con il clamore mediatico dovuto alla sua apparizione alla Scala. Un gesto non particolarmente elegante, il suo, e comunque diretto ad ottenere risultati in linea con le proprie premesse di interprete che già aveva avuto a che fare con il titolo belliniano. Alla sua lettura si è affiancata, del tutto in linea, la prestazione del Coro guidato da Alberto Malazzi.
Della regìa ben poco si può dire tranne che i suoi effetti erano inversamente proporzionali al valore delle credenziali di Adrian Noble, famoso per le sue interpretazioni scespiriane ossia dell’autore che tiene le redini del titolo originario, quanto è lontano dalla rivisitazione che ne era stata fatta da noi e che era stata utilizzata sia di Zingarelli che da Vaccai e infine da Bellini. Regìa i cui punti cardine erano ben spiegati da Noble nel programma di sala (ambientazione negli anni Trenta, importanza del conflitto tra Guelfi e Ghibellini e via dicendo) ma che si risolvevano poi in ammazzamenti di una violenza incredibile, duelli assurdi tra coloro che impugnano pugnali, pistole e mitraglie (nel cast era presente pure il “Maestro d’armi” Mauro Plebani), addirittura un bomba in scena. Particolari chiassosi che hanno movimentato una azione che peraltro sarebbe stata improntata alla staticità, in un panorama scenico davvero modesto. Le scene di Tobias Hoheisel si sono pure arricchite di una sfilata di cuochi pasticceri al momento del banchetto di nozze poi interrotto, un particolare di gusto incommentabile che ci ha riportato allo schock del piatto di pastasciutta di un Così fan tutte con la regia di Patroni Griffi di quasi cinquant’anni fa. Più limitati, in effetti, i consensi finali del pubblico a queste ultime componenti essenziali della produzione.