Riferendoci al penultimo recital tenuto da Mitsuko Uchida alla Società del Quartetto di Milano nel 2019 avevamo riassunto su queste stesse colonne i caratteri principali del pianismo di una interprete davvero singolare nel panorama internazionale: il rifiuto del divismo, la presa in carico di una visione dei classici appresa attraverso l’eredità di certe figure mitiche del concertismo occidentale, come Wilhelm Kempff, la scelta di frequentare assiduamente il comparto della musica da camera, la facilità nell’instaurare un rapporto confidenziale, cordiale con il pubblico.
Uchida ha oggi quasi settantaquattro anni e si è orientata verso la scelta forse fin troppo raffinata di accostamenti che avrebbero forse avuto la necessità di un chiarimento da parte sua. Il programma da lei portato in tournée nell’anno in corso prevede infatti nella prima parte legami insoliti tra il Mozart della Fantasia K 475 e della Sonata K 570 e alcune scelte tratte dal ciclo Játékok (giochi) di Kurtág. È quest’ultimo un work in progress iniziato nel 1977 e che ha oggi raggiunto la bellezza di dieci volumi (otto dei quali dedicati al pianoforte solo), un insieme di pezzi brevi legato all’infanzia, in un certo senso nello stesso modo in cui lo sono le schumanniane Kinderszenen: non pezzi affrontabili dalla gioventù, bensì ispirati da un ideale rapporto che potrebbe nascere tra un bambino e la tastiera, alla scoperta di suoni non necessariamente legati a una costruzione formale così come ci è tramandata dalla pratica e dalla didattica occidentali. Vi sono anche elementi che si riferiscono al repertorio tradizionale, ma sempre reinventati con una straordinaria immaginazione che è percepibile però – lo aggiungiamo noi – da un ascoltatore di consumata perizia.
Il perché e soprattutto il come Uchida abbia accostato una scelta di questi pezzi alla Fantasia e alla Sonata di Mozart prescelte è un piccolo mistero ma ha dato luogo ad accostamenti poetici di indubbio fascino, se non proprio spiegabili in termini razionali. La lettura mozartiana della Uchida non è rapportabile a particolari scuole di pensiero e si dipana attraverso atteggiamenti che fanno più pensare a un compositore Rococò, in una visione critica ancora ottocentesca. Siamo quindi ben lontani dall’approccio sicuramente più assertivo di interpreti mozartiani d.o.c. come Friedrich Gulda o ai modernismi di un Pollini. Uchida è così e non lascia all’ascoltatore che la scelta di accettarla in tutta la sua serenità, che non contempla momenti di crisi neanche di fronte alle oscure premonizioni di un testo come la Fantasia in do minore.
Nella seconda parte del programma, la pianista ha dedicato le proprie attenzioni a una composizione bellissima, di relativa scarsa frequentazione, e piena di insidie tecnico-interpretative quale è la raccolta dei Davidsbündlertänze di Schumann. Il controllo manuale di Uchida non è più quello di un tempo, ma non così si può dire della integrità della visione di queste pagine affascinanti, che non sempre sono state affrontate dai concertisti con lo stesso grado di insight (si ricorda l’esempio massimo di Cortot, oppure quello di Dino Ciani, non quello di Pollini, che ne aveva dato una lettura fin troppo razionale). Al termine di una esecuzione che ha ancora una volta attirato magicamente il silenzio del pubblico e la concentrazione dell’ascoltatore anche non così in accordo con la poetica di Uchida, si è ascoltato un altro gioiello mozartiano come bis: il secondo movimento della Sonata K 330 di un Mozart angelico ma comunque sempre più innamorato della vita.