di Luca Chierici
Il concerto straordinario che Maurizio Pollini ha voluto dedicare, anche tangibilmente, senza compenso, alla Croce Rossa per il suo supporto alla guerra in Ucraina – ospite la Società del Quartetto di Milano – ha avuto una eco evidente vista la sala del Conservatorio stracolma come non la si osservava purtroppo da molti anni.
Un pubblico che ha tributato al pianista più di una standing ovation e che ci ha permesso di riascoltarlo in alcune gemme tratte dal suo vastissimo repertorio. L’impaginato era relativamente semplice in quanto a costruzione: una delle più problematiche sonate di Schubert nella prima parte e una serie di pezzi da novanta scelti nel catalogo chopiniano, con l’aggiunta della Prima ballata come bis.
La cosiddetta Sonata-Fantasia in sol maggiore di Schubert rappresenta uno dei momenti più alti dell’inventiva del compositore ed è stata protagonista di un curiosa vicenda all’interno dell’aneddotica relativa alle già poco frequentate sonate schubertiane, quasi dimenticate per oltre un secolo dalla loro creazione e riportate alla luce solo da un manipolo di coraggiosi pianisti soprattutto nella seconda metà del secolo scorso. Fatto curioso, la Sonata in sol maggiore non era mai sparita del tutto dal repertorio, anzi era stata una delle poche ad essere ricordate da grandi figure della seconda metà dell’Ottocento ma solamente per la presenza di un terzo movimento, un Minuetto, che era evidentemente entrato molto facilmente nell’immaginario melodico dei seguaci dello Schubert liederistico. Fa un certo effetto notare che questo Minuetto (davvero ineffabile, con il suo splendido Trio in “maggiore”) era stato suonato in pubblico fin dal 1873 da figure leggendarie come Clara Schumann o più tardi da Eugen d’Albert. Ma l’intera sonata, che Liszt aveva definito stranamente “virgiliana”, dovette attendere molti anni ancora prima di essere recuperata alla prassi esecutiva, e nemmeno molto spesso. Pollini l’aveva messa in repertorio negli anni Ottanta ma non era sembrata una scelta in linea con altre sonate che maggiormente avevano caratterizzato il suo impegno in questo importante settore. Pollini è stato un grande interprete di alcune sonate a sfondo drammatico (due in la minore, la grande D 958 in do minore ad esempio) ma non ha mai approfondito, per evidenti motivi caratteriali, altre sonate più esplicitamente serene, quasi di impianto virtuosistico, come la D 850 in Re maggiore.
Anche nella Sonata-Fantasia le sue scelte non sono state mai sufficientemente chiare, con opzioni di tempo molto oscillanti che andavano dai trentotto minuti del 1989 ai soli trentadue dell’altra sera. Una contrazione dovuta anche al notevole nervosismo iniziale del concerto, con la tendenza a bruciare i tempi, tagliando certe frasi, e un insolita mancanza di controllo puramente tecnico. Non ci si aspettava però, vista la tensione dell’evento, un cambio di marcia così notevole come quello che è avvenuto nella seconda parte della serata.
Che la figura e l’opera di Chopin rappresentino per Pollini una sorta di normalizzazione della pratica puramente pianistica è cosa nota da tempo. Non si tratta tanto di una preferenza, di un effetto talmente positivo da spazzare via quasi tutte le indecisioni tastieristiche, né tantomeno un ricordo ereditato dalla famosa vittoria al Premio del 1960 (a meno di non scavare nell’inconscio e di dare a quel raggiungimento un significato ovviamente importantissimo nella carriera del pianista). La scrittura e l’inventiva chopiniana rappresentano per Pollini un traguardo che lui stesso ha ammesso molte volte, pure nelle parche interviste, di considerare come un esempio di perfezione assoluta. Un materiale spesso arricchito da minime correzioni dell’ultimo minuto che testimoniano la tendenza del compositore appunto verso un ideale versione definitiva di un’opera. E certamente la scrittura chopiniana è come insita nella tecnica digitale del pianista, come un invariante che quasi nessun tra i grandi interpreti storici del passato ha potuto possedere in simile grado. È quindi accaduto che cinque numeri del catalogo chopiniano le cui difficoltà tecnico-interpretative fanno tremare qualsiasi esecutore hanno ricevuto una lettura di straordinario spessore, una miscela di comprensione del testo e di dominio del complesso tecnico-narrativo che non ci aspettavamo più dall’artista ottantenne e di salute non certo brillantissima. Bisogna andare indietro nella memoria a un mai dimenticato recital di Rubinstein nella stessa sala (ancora per il “Quartetto”, nel 1976, e in presenza dell’allora trentaquattrenne Pollini) per ritrovare una assertività così felice di fronte a un repertorio di così grande impegno psico-fisico.
La Barcarola, la Quarta ballata, il Primo scherzo, soprattutto, hanno restituito un Pollini che non si ascoltava da tempo, con una resa strumentale memore delle glorie passate cui si aggiungeva una affascinante tendenza a ripensare i contenuti narrativi in un’ottica nuova, come nel recupero dell’esperienza musicale di una vita.