di Luca Chierici
Un arco di tempo di trecentosessantasette anni separa in questa nuova edizione del Festival della Valle d’Itria, la quarantottesima, due lavori come il Xerse di Cavalli (1655) e Opera Italiana di Nicola Campogrande, titoli che esulano da uno dei consueti filoni di scelta di una manifestazione che era nata consacrando le proprie riscoperte al repertorio spesso sconosciuto di compositori nati e vissuti nel contesto del Sud Italia.
Con l’inserimento di una rappresentazione in forma scenica de Il Giocatore di Prokof’ev (1929) e di due esecuzioni in forma di concerto di Beatrice di Tenda di Bellini (1833) e de “La scuola de’gelosi” di Salieri (1778) il nuovo direttore artistico Sebastian F.Schwarz ha voluto però per quest’anno allargare la scelta del programma per abbracciare idealmente la storia dell’Opera tutta, che parte dagli esperimenti della Camerata Fiorentina e copre quattrocentocinquantanni fino ai nostri giorni. Ecco allora che Schwarz ha assolto al compito di scegliere “cinque opere rappresentative di cinque secoli di eredità storica”. Al di là dei singoli risultati, preme ricordare qui ciò che è stato detto più volte: il Festival della Valle d’Itria rappresenta comunque un momento di riflessione sul repertorio che è davvero insostituibile, invitando i convenuti a quello che a volte può essere visto come uno sforzo di partecipazione che va oltre le singole predilezioni. Non tutti hanno la stessa dimestichezza con i vari comparti che vanno a formare la lunga storia del melodramma, non tutti amano il “moderno” o l’approccio filologico all’antico. Ma la frequentazione di questo Festival, da quasi cinquant’anni è da stimolo per andare oltre rispetto alle convenzioni, ad ascoltare, e perché no anche a studiare cose che per comodità e pigrizia tendiamo a relegare in un angolo.
Di tre di questi titoli dell’edizione 2022 riportiamo qui di seguito brevi impressioni critiche che, come è sempre stato il caso del Festival, puntano a sottolineare soprattutto il positivo risveglio di interesse verso queste porzioni di repertorio poco eseguite, tenendo anche conto dei mezzi non certo infiniti di una manifestazione che non può per ovvie ragioni accedere ad allestimenti solitamente appannaggio dei teatri più blasonati (e più sovvenzionati). E ancora una volta il Festival della Valle d’Itria punta con lungimiranza anche alla scoperta di nuovi talenti per i quali è auspicabile una carriera di successo.
A volte alcuni incidenti di percorso – non dimentichiamo i guai della recente pandemia – possono mettere in crisi i programmi decisi con largo anticipo e in questo caso la mancanza di un direttore autorevole come Fabio Luisi si è fatta sentire nel caso dell’opera belliniana. Da una esecuzione in forma di concerto della Beatrice di Tenda di Bellini ci si sarebbe atteso qualcosa di più in termini di precisione di attacchi e di gestione di un ensemble di protagonisti tutto sommato ridotto, e soprattutto si sarebbe forse potuto evitare che la responsabilità quasi totale del cast cadesse sulla magnifica Giuliana Gianfaldoni sulla quale pesava il ruolo del titolo. La presenza sul podio del giovane Michele Spotti, non ancora trentenne ma già veterano del Festival, si è comunque fatta sentire in un’opera che non è di frequente ascolto e che richiede una esperienza non secondaria per illuminare le molte bellezze di una partitura tutt’altro che di facile concertazione. E’ un Bellini in un certo senso tardivamente sperimentale quello che si ascolta qui, limitato forse da un rapporto non ideale con il librettista e da un soggetto dalle non vaste valenze drammaturgiche. Ma è pur sempre un Bellini all’apice delle proprie possibilità, che regala soprattutto alla protagonista momenti musicalmente indimenticabili. L’esecuzione curata da Spotti ha stentato a decollare, con qualche imprecisione d’assieme e con la non indimenticabile performance dei comprimari, dall’Agnese di Theresa Kronthaler all’Orombello del pur generoso Celso Albelo e al Filippo di Biagio Pizzuti. Le cose sono andate meglio verso il Finale primo e per tutto l’atto secondo, ma è stato chiaro fin dall’inizio della comparsa della Gianfaldoni quale fosse il divario di qualità che separava la protagonista dal resto del cast, sia in termini di pura vocalità che di proprietà di fraseggio. Grande importanza aveva sulla carta il coro del Petruzzelli, che ha onorevolmente assolto al proprio compito nonostante qualche visibile presenza di “solisti” che turbavano l’unitarietà dell’assieme. Unitarietà che invece è stata brillantemente rispettata dall’Orchestra dello stesso Teatro. Spotti ha dato il meglio di sé in questa situazione di recupero ma è chiaro come una partitura del tardo Bellini, e sottolineo ancora una volta le peculiarità di scrittura di questa Beatrice, contenga molte difficoltà che richiedono una bacchetta con una esperienza a largo raggio come poteva essere raggiunta da direttori alla Votto, Bonynge o Zedda, o Marcello Viotti, tra gli interpreti noti del titolo. Né si poteva contare qui su un cast che in passato aveva visto partecipare nomi del calibro della Sutherland, della Gruberova, della Kabaiwanska e della Devia o di Pavarotti e La Scola. Gli applausi finali – e molti nel corso dello svolgimento dell’opera – sono stati soprattutto indirizzati alla Gianfaldoni. Per la cronaca, riconoscimenti sono stati tributati, in minor misura, agli altri interpreti.
Con un cambiamento totale di prospettive si è assistito il giorno seguente – 24 Luglio – alla rappresentazione in forma scenica de Il giocatore di Prokof’ev, lavoro iniziato nel 1915 e compiuto nel 1916, destinato al Mariinskij dell’allora Pietrogrado, rimandato per proteste del cast e poi a causa della Rivoluzione. Dopo un lungo periodo di assenza dalla Russia, l’autore torna nel 1927 a Leningrado, ritrova la partitura originale ma ancora una volta la messa in scena non ha luogo a causa delle intromissioni da parte dell’Associazione dei musicisti proletari. Rielaborata e tradotta in francese da Paul Spaak, l’opera va finalmente in scena a Bruxelles il 29 Aprile del 1929. Scritto da Prokof’ev in base a un proprio libretto tratto dall’omonimo romanzo di Dostoevskij, Le joueur ha conosciuto una fama postuma grazie a decisive rappresentazioni a cura tra gli altri di Gergiev e Barenboim.
Esemplare è stata sotto tutti i punti di vista l’esecuzione martinese, a partire dalla scelta di affidare la direzione a un professionista più che solido e di lunghissima esperienza come Jan Latham Koenig, che ha guidato i complessi del Petruzzelli nella lettura di una partitura complessa e di difficile realizzazione. L’allestimento guidato dalla regia di David Poutney ha illustrato con semplicità di mezzi una vicenda non particolarmente semplice da rappresentare e già condensata in nuce fin dall’apertura di sipario. Attraverso le scene (e i costumi) di Leila Fteita ci si è trovati infatti di fronte a una realtà dominata da una gigantesca roulette e da uno specchio quasi parallelo alla piattaforma, che servirà più tardi anche a rendere visibili i particolari della sala da gioco e delle “puntate” che caratterizzano soprattutto le scelte sciagurate della vecchia protagonista (la “Nonnetta”). Puntate che risultano invece vincitrici quando è l’impetuoso Alexei a gettarsi nel rischio. I personaggi si muovono spesso come animati da frenetiche rotazioni che simboleggiano ovviamente il moto della roulette, che è in un certo senso la vera protagonista della vicenda. Gli interpreti hanno contribuito diremmo in egual misura al successo della rappresentazione, senza dubbio a partire dalla Pauline di Marina Tampakopoulos all’Alexis di Sergej Radchenko e alla Grand-Mère di Silvia Beltrami, personaggio quest’ultimo che è definito in base a una più che evidente somiglianza col carattere della Dama di Picche dell’omonima opera di Cajkovskij. Ma di spessore sono risultati anche gli interventi dei comprimari, dal Generale di Andrew Greenan al Marchese di Paul Curievici , Blanche (Ksenia Chubunova), il Principe Nilsky (Sandro Rossi), il Barone Wurmerhelm (Strahinja Djokic), Mr.Astley (Alexander Ilvakhin) e Potapytch (Gonzalo Godoy Sepulveda)
Autore oggi di culto, Francesco Cavalli (1602 – 1676), cremasco di nascita e veneziano di adozione, è ben rappresentato all’estero, anche per l’interessamento di un direttore come Federico Maria Sardelli, ed è solamente da poco approdato alle scene italiane persino alla Scala, lo scorso anno, con la sua Calisto. A Martina Franca si è tenuta una giornata di studi su Cavalli alla Fondazione Paolo Grassi e si mormora già di una “Cavalli renaissance” che potrebbe avere luogo proprio nel corso delle future programmazioni del Festival della Valle d’Itria. Si tratta forse di un progetto ambizioso e non ancora adatto a un palcoscenico tutto sommato generalista, e per quanto la prima rappresentazione di questo Xerse (1655) abbia attirato una folla di appassionati del genere, è purtuttavia vero che sono ancora netti i confini tra un progetto che nasce da una situazione di studio e di promozione e l’inserimento di questi titoli nel comune repertorio. Gli ascoltatori allergici ai lunghi “recitativi secchi” tipici del melodramma italiano settecentesco avranno trovato piuttosto indigesta la successione del solo prologo e del primo atto che hanno avuto una durata di 95 minuti e che risultavano quasi privi di arie o pezzi d’assieme. Quasi impossibilitati a seguire nel dettaglio il complicatissimo soggetto che ruota attorno agli amori del protagonista, gli stessi spettatori si sono abbandonati alla fiducia nel concertatore, nei cantanti e nel regista per comprendere al meglio quanto avveniva in teatro, seguendo una partitura la cui revisione è stata curata da Sara Elisa Stangalino e Hendrik Schulze per l’editore Bȁrenreiter. Esecuzione non integrale – non sappiamo quanto lo spettacolo avrebbe potuto estendersi nel caso di una scelta filologica assoluta – che è comunque durata più di tre ore, con una salutare accumulazione degli eventi che ha avuto luogo nella seconda parte. Il regista martinese Leo Muscato ha insistito su una presunta parentela tra il soggetto e gli schemi tipici della Commedia dell’Arte inserendo un meccanismo di “fermo immagine” realizzato attraverso un battito di mani dei protagonisti che alla fine risultava piuttosto stucchevole e che ha meravigliato non poco l’uditorio. A parte questa non del tutto giustificabile impostazione tipica dell’opera buffa, che violentava il carattere tragico originale della partitura, non si sono notate altre idee particolarmente notevoli: oramai scontata era infatti la scelta di riferimenti a una Mesopotamia o Persia teatro di guerre e la conseguente messa in scena di protagonisti armati di mitragliatrici e indossanti vistosi occhiali da sole, tutti particolari visti e rivisti anche nel contesto di titoli già rappresentati in passato nel corso del Festival. La scelta dei costumi da parte di Giovanna Fiorentini non ha aiutato a discernere i caratteri dei personaggi ed è risultata vagamente sopra le righe e la scena fissa di Andrea Belli ricordava curiosamente l’impianto “a porte” che si era visto la sera prima nel corso dell’opera di Prokof’ev. Sardelli, la cui autorevolezza è ovviamente fuori discussione in questo tipo di repertorio, ha guidato con partecipazione l’Orchestra Barocca Modo Antiquo e in questo caso non ha senso avanzare dubbi e lamentele sull’intonazione di strumenti d’epoca che costituiscono il lato debole – ma necessario – in questo tipo di repertorio. Ai cantanti veniva richiesto un compito sovrumano, non tanto per seguire prodezze di coloratura quanto per adattarsi ai meccanismi di regia, al fraseggio antico, alla mancanza di veri e propri momenti di protagonismo. Eppure era molto interessante, soprattutto nel terzo e quarto atto, seguire l’evoluzione stilistica di un linguaggio che troverà nuovi raggiungimenti nel secolo a venire. Carlo Vistoli era forse l’unico vero protagonista che ha avuto il coraggio di afferrare di petto il proprio non facile ruolo, ma nei ruoli di Arsamene, Romilda, Amastre, Adelanta si sono districati con sufficiente perizia Gaia Petrone, Carolina Lippo, Ekaterina Protsenko e Dioklea Hoxha e altrettanto si può dire per i co-protagonisti maschili. Per l’occasione era stato inaugurato nuovamente lo spazio martinese del Teatro Verdi, che era rimasto inagibile per diverso tempo.