di Luca Chierici
È possibile oggi fare rivivere attraverso un apporto registico moderno un’opera considerata già da tempo per molti versi antiquata? Se la risposta è affermativa, significa che molto probabilmente la rilettura travalica di gran lunga i significati originali del lavoro; se è negativa vuol dire che il lavoro stesso è fermamente ancorato al gusto e alla convenzioni dell’epoca in cui fu creato.
Date queste premesse se ne deduce che l’ultima lettura di Fedora da parte di Martone rischia di trasformare ciò che nasce spontaneamente in base a determinati stimoli artistici in qualcosa che ha poco a che fare con le ragioni primigenie di uno dei titoli a torto o a ragione più apprezzati di Giordano. Che Fedora abbia conosciuto nel tempo un successo di pubblico straordinario è fatto certo. Che molta critica abbia alla fine ceduto nel riconoscere un valore intrinseco a quello che era stata definito piuttosto causticamente da Franco Abbiati come “un titolo buono per il pubblico milanese, che ha un debole per la sua storia d’avventure poliziesche e d’amori infelici” e se Duilio Courir scriveva che la Freni aveva dato “accenti drammatici a Fedora con bagliori di sentimentalità degni dell’Onegin” (non sapendo se fare o meno un torto al capolavoro di Čajkovskij) è altrettanto vero che, nel tempo, il successo di pubblico Fedora se lo è meritato, eccome. E riconosciamo come, in genere, una interpretazioni coi fiocchi riesce a rendere quasi capolavoro ciò che non lo è.
Oppure, se si parte da basi già riconosciute di valore, di bellezza, non fa altro che aggiungere motivi di plauso e di successo a qualsiasi produzione, o quasi. Le prime protagoniste di Fedora partivano già dagli esempi teatrali di enorme impatto della Bernhardt e direttori quali De Sabata aggiungevano fascino a una partitura che conosce alcuni momenti di pregio, ma non di più. Pertile e Gigli e Corelli nel ruolo di Loris, la Callas nel ’56 e poi Freni e Domingo nel 1993 consacrano definitivamente questa prima trasformazione di un titolo felice sì, ma che non ha certo la pretesa di porsi come elemento di novità nel teatro musicale del primo Novecento. Si ha sostanzialmente l’impressione che se non vi fossero stati interpreti di quella levatura, Fedora non avrebbe riscosso il successo che effettivamente ha avuto (ma, di contro, si potrebbe anche dire che il titolo ha avuto successo perché gli interpreti hanno trovato in esso motivi di approfondimento di supporto per una lettura di indubbio fascino). Ecco, quello che è mancato l’altra sera, però, è proprio il fascino: una concertazione e direzione elegante da parte di Marco Armiliato, è vero, una buona immedesimazione ed exploit vocale da parte della Yoncheva, qualche scampolo di una carriera oramai decaduta da parte di Alagna, decisamente accettabile performance per il De Siriex di George Petean a per la Olga di Serena Gamberoni. Ma nulla che facesse ricordare un glorioso passato, anche recente come quello della coppia Freni-Domingo di qualche anno fa. In quest’ultimo caso, lo confesso, il fascino della presenza dei due artisti poneva del tutto in secondo piano la validità della partitura e l’apporto scenico-registico, persino l’affettuosa direzione di Gavazzeni.
La questione relativa alla odierna messa in scena, troppo preceduta da dichiarazioni d’intenti da parte del regista Mario Martone, peraltro non certo presenza nuova sul palcoscenico scaligero, non ha aiutato nella definizione del feuilleton di Sardou-Colautti-Giordano. Fedora era prevista in una nuova veste nel 2019, progetto poi rimandato in tempi di Covid. In questo caso il regista parte da suggestioni magrittiane (L’Assassino minacciato e l’Impero delle luci) che sono assolutamente personali, vorremmo dire pretestuose. Un richiamo pedissequamente ripreso dalle scene di Margherita Palli, senza dubbio illustrative dell’assunto. Martone avrebbe potuto riferirsi a qualsiasi altro suggerimento, la Palli avrebbe potuto in egual modo adattare le sue scene a quanto richiesto dal regista, ma l’unico appunto positivo che si può avanzare è che tale visione è stata portata avanti in maniera coerente fino alla fine (tranne forse l’inesplicabile chiusura) cosa che nel novanta per cento dei casi raramente avviene per le regìe cosiddette moderne e che il connubio tra parte musicale e scenica funzionava in maniera accettabile. Ma il problema di fondo è relativo al valore del titolo e a come lo stesso sia diventato così celebre al di là della attrattiva costituita da un plot poliziesco infarcito di belle intenzioni sentimentali.
Ascoltando Fedora ci si accorge di quanto geniale sia Puccini – altro che sentimentalismo! – e di quanto, lo ripetiamo, il livello degli interpreti delle passate stagioni abbia contribuito al successo dell’opera stessa, alla quale, non dimentichiamolo, era stato vietato l’ingresso nel tempio milanese della Lirica per trentaquattro anni. Pubblico in delirio (molti gli stranieri affetti da applauosomania congenita che non lasciano nemmeno terminare le chiuse orchestrali) e fischi non isolati per Martone, che in maniera piuttosto villana ha mandato a quel paese i contestatori.