di Santi Calabrò
Uno dei segni distintivi del romanticismo musicale consiste nel ruolo eminente assunto dai cicli di brani brevi, legati da elementi formali e a volte dal contenuto (più evidente nel caso dei Lieder). Frammenti e reminiscenze, rovine e slanci eroici, ritratti ed evocazioni coesistono in narrazioni musicali a pannelli, dove il linguaggio musicale romantico, la nuova sensibilità soggettivista, l’evoluzione del gusto e le prospettive ribaltate dell’estetica si affermano nel modo più trasparente.
I trionfi di questa forma d’arte nel romanticismo, tuttavia, non bastano a far rifiutare del tutto un’ipotesi storiografica più inclusiva, che delinea un’epoca più vasta come “classico-romantica”: del resto, i cicli più splendenti provengono da autori che dominano il repertorio anche con le grandi architetture sonatistiche. Inoltre, se pure la quasi totalità degli interpreti si confronta con tutte le forme coltivate nel primo Ottocento, è abbastanza raro trovare un recital pianistico dedicato solo a cicli e a “polittici”. Si direbbe, volendo desumere un principio dalle statistiche, che perduri sotto traccia l’idea che una bella sonata, classica o romantica, rinforzi l’impaginazione complessiva di un programma da concerto e gli dia una struttura più solida.
Zoltán Fejérvári, di sicuro, non è di questo avviso. A inaugurazione della 102a stagione della Filarmonica Laudamo di Messina, il pianista ungherese ha proposto un triduo romantico nel quale, in un concerto di eccelso livello e serrata coesione, non si patisce di certo la mancanza di una sonata. Vibrante, lucida ed elegante, in apertura, la lettura delle Valses nobles D. 969 di Schubert. La raccolta, con Fejérvári, richiama le pagine più eseguite dell’autore, dagli Improvvisi alle Sonate. Anche se il ritmo e la idiomaticità della danza sono restituiti con adeguata caratterizzazione, nell’insieme l’esecuzione sembra tradurre alla lettera la massima di una penna ispirata, nei pensieri non meno che sul pentagramma, quella di Robert Schumann: «la regina (melodia) ha il massimo potere, ma il colpo decisivo dipende dal re (armonia)». Un viatico su cui riflettere per ogni esecutore; a dirla tutta, la più classico-romantica delle metafore! Nelle Valses eseguite da Fejérvárj sia gli snodi espressivi delle singole miniature che la linea dell’insieme tengono il punto della “sovranità” fondamentale, che Schumann indicava per via scacchistica: a ogni cambiamento di piano armonico corrisponde un piano sonoro diverso, ogni nuance si nutre della mano sinistra, deliziandosi nel gioco tutto schubertiano delle medianti, e quando poco dopo la metà del ciclo arriva il valzer alla sottodominante Fa maggiore (il tono di impianto del ciclo è un luminoso Do maggiore) si avverte il segnale – struggente come non mai nel tessuto sonoro ordito da Fejérvárj – che la festa danzante sta cominciando a virare verso la conclusione.
Ben diversa la lettura del Carnaval op. 9 di Schumann. Nonostante la rara scelta di eseguire anche le brevi “Sfingi”, che esibiscono le radici tematiche dell’intero lavoro, Fejérvárj si affida alla coerenza della struttura senza enfatizzarla e si lancia in un’interpretazione accesa, dove i palpiti e i sussulti della linea melodica – si tratti di momenti lirici o agitati – manifestano di continuo un impeto febbrile. La regina (si intende sempre la melodia: per Robert non è ancora il tempo di Clara…) esibisce ora tutto il suo potere, incluso quello di attentare al respiro della forma. Sorprendentemente, in un programma che proseguirà con i Preludi op. 28 di Chopin, è qui che Fejérvárj esprime un romanticismo più radicale, intessuto di fantasticherie e parossismi. Ma in realtà la sorpresa è annunciata: il momento più eufonico e liricamente disteso del Carnaval secondo Fejérvárj è proprio il n. 12, il ritratto che Schumann dedica a Chopin.
Già alle prime note della seconda parte del concerto, che completa la parata di cicli romantici con la sublime raccolta chopiniana, Fejérvárj annuncia un drastico cambiamento del clima. Il Primo Preludio si snoda come un arco sicuro e asimmetrico che flette verso il culmine della linea, nel Secondo e nel Quarto il cromatismo è delibato fino in fondo ma sempre subordinato alla signoria del canto, nel Terzo sembra ridestarsi l’arte evocatrice di immagini di Alfred Cortot. La scrittura di Chopin, dove prevale il legato o almeno l’omogeneità delle scelte di testura, concorre a una resa che fonde in un’intenzione compatta i dati sintattici, l’elasticità del fraseggio e le rifrazioni cangianti del timbro. Fejérvárj percorre le tessere del mosaico ingaggiando quasi una sfida con il magnifico Steinway del Palacultura, al punto che in certi snodi sembra che abbia due strumenti a disposizione: come nel passaggio dal Preludio n. 9, sontuoso nelle sue premonizioni wagneriane, al n. 10, aereo e fatato. Una successione ancora più contrastante, ma con logica inversa, conclude il percorso, quando dai palpiti iridescenti del Preludio n. 23 Fejérvárj plana sul poderoso e tragico n. 24, la più allucinata delle “cadute di Varsavia”. Quei Preludi più simili agli Studi dello stesso Chopin (nn. 8, 12, 16) vengono dominati con un virtuosismo supremo, che trascende il dato tecnico nella vertigine del ritmo, delle linee, dei piani sonori. E dove il suono sembra tendere all’impressionismo (nn. 5, 14, 19, 23), un sensorio costantemente acceso sull’armonia lo specifica in un’accezione tutta chopiniana. L’estatico n. 15 in Re bemolle maggiore (in forma ternaria, con la parte centrale in un drammatico Do diesis minore), unico brano tonalmente bifronte a fronte degli altri 23 a campata armonica ed ethos unitari, cade sulla sezione aurea del ciclo: nel modo di eseguirlo e nel gesto dionisiaco con cui attacca il Preludio successivo – che mentre completa la coppia apre in gran tumulto la parte minore dell’intera ghirlanda – Fejérvárj rende quasi visibile la costruzione calcolatissima dell’insieme, riassumendola in attimi di vera sospensione del tempo.
Suonare così intellettualmente e così ispiratamente è faticoso: ci vogliono diverse chiamate del pubblico prima di concedere un solo bis nel nome di Janáček e nessuno dei presenti, grati ma estenuati dal diluvio di emozioni, ha il sospetto che l’artista faccia così per divismo. Dal giovane Fejérvárj c’è da aspettarsi molto, su un vasto repertorio e a cominciare da una sostanziosa immersione nelle opere di Chopin, autore che sembra essergli particolarmente congeniale nelle sue sfaccettature espressive e probabilmente, dato l’evidente spessore culturale dell’interprete, in ogni declinazione formale.