di Attilio Piovano
Un concerto davvero singolare, quello tenuto da John Eliot Gardiner alla guida delle sue due blasonate ‘creature’, vale a dire l’English Baroque Soloists e lo strepitoso Monteverdi Choir: per Lingotto Musica a Torino, in Auditorium ‘Agnelli, la sera di mercoledì 2 novembre 2022.
Concerto singolare innanzitutto – ovviamente – per l’indiscussa e ben nota valentìa dei due ensembles e così pure per la sterminata cultura e sensibilità di Gardiner, ma non solo: di concerto ‘davvero speciale’ si è trattato altresì per il ricercato contenuto, lontano per una volta dal consueto e pur gradito repertorio per lo più sinfonico che è caratteristica della programmazione dei Concerti del Lingotto. E il pubblico, che affollava la sala – molti i giovani, fa piacere constatarlo – ha mostrato di gradire la proposta, decretando un successo indicibile, e invero del tutto meritato, a fine serata con applausi scroscianti e prolungati.
Duplice l’hommage da parte di Gardiner al conterraneo Purcell. E allora ecco in apertura il fascinoso Anthem (ovvero mottetto concertato, dunque con voci e strumenti) Jehova quam multi sunt hostes composto intorno al 1680 circa e che contempla passaggi rigorosamente polifonici a 5 voci ad interventi solistici di una voce di basso ed una di tenore. Poi ancora di Purcell, ad introdurre la seconda parte del concerto, è stato proposto il fastoso, solenne ed imponente Hear my prayer, O Lord a otto voci. Di entrambe le pagine Gardiner ha perfettamente colto l’esprit ad esse sotteso: di questa seconda composizione, in particolare, potendo contare su un ensemble di eccezionale bravura (di fatto si tratta di tutte voci soliste dalla grande esperienza, dalla tecnica sicura e impeccabile e dal gusto raffinatissimo) Gardiner ha avuto cura di porre in rilievo le molte ‘false relazioni’, gli intervalli dissonanti, insomma, che ben si attagliano al testo stesso, laddove si dice Let my crying come unto thee, sicché tutto il pathos di questo brano dal sound in sintonia con gli stilemi tipici di certo Barocco anglosassone, sono emersi al meglio.
Gardiner – si sa – non è uno di quei barocchisti che indulgano a monocromie ed esangui sonorità: al contrario ama rendere palpitanti le composizioni, lavorando molto sulle dinamiche e, massimamente, sui fraseggi, sempre funzionali alla chiarezza ed alla efficacia, nel restituire pagine di grande impatto emotivo. Ed era il caso dei due vasti lavori collocati a centro serata: vero e proprio ‘piatto forte’ nell’impaginazione del concerto. E dunque, del sommo Monteverdi, il divo Claudio per dirla con D’Annunzio, la vasta Messa a 4 voci SV 190 racchiusa entro la celeberrima Selva Morale data alle stampe a Venezia nel 1641, vero e proprio «compendio della monteverdiana esperienza di maestro di cappella» a Venezia. La Messa è pagina di bellezza davvero unica e Gardiner ne ha posto in luce gli elementi salienti, fin dal frastagliato e ritmicamente energico Christe eleison. Molti i ‘madrigalismi’ disseminati entro la Messa stessa, secondo una tecnica che, si sa, caratterizzava all’epoca non solamente le pagine profane (i Madrigali per l’appunto, che Monteverdi in ben otto libri traghettò dalla dimensione ancor tutta rinascimentale a quella affatto barocca, densa di teatralità, degli ultimi libri, massimamente l’Ottavo contenente i ben noti madrigali ‘guerrieri et amorosi’), ma che contrassegnava anche la produzione sacra. Produzione che Monteverdi coltivò soprattutto in relazione alle esigenze della cappella marciana ove operò lungamente e con vasto profitto.
Ecco allora parti in cui il retaggio palestriniano e la bellezza delle nivee, ialine e soavi polifonie del maestro romano emerge in tutta la sua bellezza e il suo fascinoso nitore, alternate a passi in stile alquanto più ‘moderno’, ovvero improntate ai più caratteristici topoi dell’ormai incipiente Barocco, o età del basso continuo che dir si voglia. Impossibile restare indifferenti dinanzi alla palpitante bellezza di certi passaggi fugati che Gardiner, ben assecondato dalle ottime voci, ha restituito in tutta la loro fragranza, e allora ecco il Laudamus ma poi anche il Cum Sancto Spiritu; quanta intensità nel bel madrigalismo contenuto sulle parole Suscipe e quanta delicatezza espressiva nell’Et incarnatus est, davvero toccante, quasi una lezione di teologia in termini sonori. E ancora il possente fugato (come da convenzioni, ma lontano dalla corriva banalità dei minori) nell’Et resurrexit. Un plauso speciale poi a Gardiner per aver reso in tutta la sua efficacia lo spigliato Hosanna in excelsis contraddistinto da effettistici spostamenti di accento, quasi illusionismo acustico di grande pregnanza e di enorme impatto all’ascolto. Ma occorrerebbe soffermarsi su molti altri dettagli ancora che solo per ragioni di spazio non è possibile inventariare: entro una esecuzione di gradevolissima immediatezza, e pur improntata a rigore filologico assoluto.
Completava il bel programma la (relativamente) rara esecuzione dell’oratorio Jephte di Carissimi, colui che al genere tipico della Contririforma romana diede significativi apporti di elevato livello qualitativo. Di oratorio in latino si tratta, dunque, come noto, indirizzato ad un parterre di fedeli (verrebbe da dire un pubblico…) mediamente colto ed elitario. Ecco allora la scaltrita maestria della scrittura e i molti passaggi che tuttora emozionano per l’efficacia e, ancora una volta, per la pregnanza. Gardiner ha saputo cogliere al meglio l’evoluzione dell’oratorio stesso che, nella prima parte, procede con tono quasi trionfante, salvo poi virare verso un’ambientazione stilistica ben più cupa e plumbea, legata alle vicende stesse ‘narrate’, alternando polifonia e più moderni mezzi della cosiddetta monodia accompagnata, tipica e peculiare del coevo melodramma.
Tratto dal Libro dei Giudici, l’oratorio delinea il dramma umano di Jephte, il condottiero degli Israeliti che per sconfiggere gli Ammoniti promette al Signore il sacrificio della prima persona che gli verrà incontro (un po’ come in Idomeneo di Mozart). Il destino baro vuole che sia la figlia stessa; da qui il gap, lo iato vistoso e doloroso tra le due parti del superbo oratorio, ammirevole ed ammirata la maestria di Gardiner nel rendere questo passaggio repentino dalla gioia e dal clima di festa all’allure decisamente tragica della seconda parte. Il vero e proprio climax emotivo, il clou espressivo è nel coro Plorate colles, dolete de montes laddove si odono le voci in eco. E pare di percepire qualcosa di analogo – fatte salve le ovvie differenze – rispetto a quanto accade nel finale della Dido & Aeneas di Purcell (Remember me, but forget my fate). Non meno emozionante il coro conclusivo Plorate filii Israel «statuario nel classico rigore eppure intenso di commozione soggettiva». Non mancano vere e proprie arie (è il caso di Incipite in tympanis), passi densi di afflizione e, ancora una volta, eleganti madrigalismi, ovvero pitture sonore di immediata presa.
Non basta: il vasto programma comprendeva ancora lo Stabat Mater di Domenico Scarlatti (scoperto nel 1940 e risalente verosimilmente al 1735), compositore che si è abituati ad associare quasi solo alla pur sublime produzione tastieristica. Ed è una vera sorpresa imbattersi in questo settore della produzione del napoletano. Una pagina alla quale Gardiner ha impresso la giusta scioltezza, laddove occorre (Vidit suum dulcem natum), spiccando con chiarezza i passi fugati (Pro peccatis). Quanta vis espressiva negli apici dinamici di Virgo virginum praeclara, assai opportunamente enfatizzati da Gardiner. Quanta varietà di colori nel sublime Inflammatus et accensus dall’andamento quasi operistico. E ancora da rimarcare la bellezza della staticità armonica di Quando corpus morietur e per contro l’effettistico fugato di grande effetto su Fac ut animae donetur / Paradisi gloria suggellato da un possente (e teatralissimo ) Amen, non a caso bissato per la gioia del pubblico.
Impossibile citare i nomi degli artisti coinvolti: ci permettiamo poche eccezioni e si tratta di due nomi italiani, Francesca Biliotti nella sezione dei contralti e l’esperta Evangelina Mascardi al chitarrone (ad essi occorrerebbe affiancare però almeno il nome del continuista James Johnstone alternatosi di volta in volta al cembalo e all’organo a seconda delle necessità imposte dalle partiture).