di Alberto Bosco
Compositore piacentino (il padre francese Charles Courcelle era stato maestro di ballo di Elisabetta Farnese), Francesco Corselli si trasferì nel 1733 a Madrid dove trovò lavoro come musicista alla corte di Filippo V, sposatosi in seconde nozze proprio con la duchessa Farnese.
In occasione di vari matrimoni della prole dei due sovrani scrisse lavori teatrali su libretti di Metastasio: un Alessandro nelle Indie nel 1738, un Farnace nel 1739, un Achille in Sciro nel 1744. Proprio quest’ultima opera è stata riesumata dal Teatro Real di Madrid, utilizzando un’edizione critica della partitura realizzata dall’istituto di musicologia dell’Università Complutense sotto la guida di Álvaro Torrente. Lo spettacolo sarebbe dovuto andare in scena già nel 2020, ma la pandemia di COVID fece naufragare il progetto. Finalmente tre anni dopo il pubblico di Madrid ha potuto vedere e ascoltare una delle poche opere liriche sopravvissute di uno tra i migliori musicisti attivi nella sua corte.
Va subito detto, però, che di spagnolo quest’opera non ha proprio nulla, trattandosi di un esempio da manuale di opera seria settecentesca, genere di teatro lirico cosmopolita tipico dell’ancien régime. Il libretto di Metastasio era stato musicato per la prima volta da Caldara nel 1736 per le nozze nientemeno che di Maria Teresa d’Austria ed è basato sulla storia di Achille nell’isola di Sciro, dove la madre Teti l’ha fatto travestire da donna per evitare che vada a morire in guerra. La vicenda presenta le solite situazioni e gli intrecci adatti a fornire spunti per arie incentrate su affetti diversi e contrastanti: conflitti interiori, innamoramenti impossibili, lungimiranti e clementi soluzioni da parte del sovrano, metafore naturalistiche, sentenze edificanti; insomma, il solito armamentario da opera seria, riscattato però da una partitura di eccellente fattura che inanella una serie di arie una più bella dell’altra. Il problema è che sono troppe e, come accade nelle opere serie, perfettamente intercambiabili, per cui alla fine si assomigliano un po’ tutte, non creando una drammaturgia che le proietti su una più generale evoluzione psicologica o che le incarni in un personaggio piuttosto che un altro. Lo stile è quello dei compositori della generazione di Hasse, per dirne uno, cioè post-Handel, pertanto più vicino allo stile semplificato di metà Settecento con bassi pulsanti, meno contrappunto, più dinamismo e slancio.
L’esecuzione musicale curata da Ivor Bolton è stata splendida, con grande cura di particolari pur nella generale sveltezza dei tempi, prassi ormai tipica nelle esecuzioni di questo repertorio. Altrettanto tipica la regia di Mariame Clément, che è consistita nell’inventare scenette e giochi di specchio (ci sono personaggi muti in vesti settecentesche che osservano e persino vengono coinvolti nella vicenda mitologica) per scongiurare la staticità delle lunghe pause dedicate alle arie. Le riserve che si possono fare alla messa in scena riguardano la scenografia, piuttosto squallida nelle forme di una grotta di cartapesta da presepio paesano, e la tendenza a far muovere troppo i cantanti impegnati nelle arie, così da farli arretrare o farli cantare di spalle rendendo meno chiaro il canto, che è poi l’unica ragione di interesse di questo tipo di spettacolo oggi giorno. In quest’ottica, sono parsi molto più convincenti i soprani Francesca Aspramonte e Sabina Puertolas, rispettivamente Deidamia e Teagene, che non i controtenori impegnati nei panni di Ulisse ed Achille (Tim Mead e Gabriel Diáz, quest’ultimo sostituendo all’ultimo Franco Fagioli). Stranamente un po’ appannato, infine, Mirco Palazzi nelle difficili arie scritte per il celebre basso Antonio Montagnana. Nel complesso comunque una bella esperienza musicale, seppure troppo lunga.