di Gianluigi Mattietti
Sono finiti i tempi in cui Bayreuth fissava gli standard mondiali delle produzioni wagneriane, sia dal punto di vista musicale che registico. E il Ring firmato da Valentin Schwarz non ha fatto eccezione. Sommerso dai fischi al festival, non era tuttavia privo di felici intuizioni, sempre sulla scia della totale demitizzazione delle opere wagneriane, imperante da anni.
Il giovane regista austriaco ha eliminato tutto l’armamentario simbolico: via spade, anelli, draghi, fuochi. Le armi erano perlopiù pistole. Ha modificato anche la natura dell’oro, il cui furto dal Reno, nei minuti iniziali, è il peccato originale che mette in moto la trama epica, l’elemento tossico che simboleggia la ricchezza e la mercificazione. Frank Castorf, nel suo Ring del 2013, aveva trasformato l’oro in petrolio. Schwarz ha invece preso spunto dalle mele d’oro coltivate nel giardino di Freia, che garantiscono agli Dei eterna giovinezza, per incentrare la sua tetralogia sul mito della giovinezza, raccontando una società devastata dall’ansia di sfuggire alla morte, ossessionata dalla moda, dal fitness, dalla chirurgia plastica. L’oro rubato era quindi incarnato da un ragazzino, il cui rapimento iniziale (compiuto da Alberich nel Rheingold) offriva lo spunto per inquietanti allusioni al traffico e all’abuso di minori. E nelle quattro opere si raccontavano, con cruda vividezza, le vicende una famiglia moderna, allargata, benestante, dalle chiare propensioni criminali, tra mille incongruenze e situazioni enigmatiche. Ma alcuni elementi chiarificatori emergevano in questa Götterdämmerung, dove Schwarz ha squadernato alcune idee interessanti e scene di grande forza teatrale, sfruttando molto bene le scenografie spartane e sinistre di Andrea Cozzi, le luci cangianti di Reinhard Traub, i costumi trash di Andy Besuch, ma senza una drammaturgia unificante, creando di fatto un mosaico di scene incongruenti, spesso isolate, con l’aggiunta di personaggi e dettagli criptici.
Siegfried e Brünnhilde sono una coppia in crisi, nel loro elegante appartamento, dove vivono insieme all’anziano maggiordomo Grane (che non è più un cavallo, ma ha criniera e barba equina) e al loro figlioletto, al quale in sogno appaiono le tre Norne, come fantasmi dai costumi scintillanti che appaiono in sogno al bambino. Sigfried non ha nulla dell’eroe, sembra più un marito annoiato che desidera andarsene di casa, si innamora di Gutrune senza bisogno di pozioni, e con grande nonchalance aiuta Gunther a entrare nella propria casa, a violentare la sua stessa moglie, a sottrargli il figlio (che rappresenta effettivamente l’anello). Si scopre poi che il bambino rapito da Alberich nel Rheingold è cresciuto fino a diventare il perfido Hagen che, all’inizio del secondo atto, si allena con guantoni e sacco da boxe in uno spazio geometrico, asettico, come un grande cubo bianco dalle pareti luminose e traslucide, dove poi entrano i vassalli, incappucciati come adepti di una setta segreta, brandendo delle maschere alate, rosse, altro simbolo piuttosto enigmatico. Nel terzo atto, Siegfried viene ucciso dentro una piscina abbandonata, prosciugata, piena di spazzatura e taniche di benzina, e rivolge le sue ultime parole al figlio, che aveva portato lì per pescare. Sul fondo di quella piscina giunge infine anche Brünnhilde che canta la sua ultima aria accarezzando la testa mozzata di Grane, come una specie di Salome, per poi sdraiarsi e morire accanto al corpo di Siegfried, mentre un video mostra i due feti abbracciati (che poi sarebbero Wotan e Alberich, già mostrati all’inizio del Rheingold, mentre invece lottavano nel grembo materno). Ottima la parte musicale con la Brünnhilde di Irene Theorin imponente, come richiede il suo ruolo, capace di passare dal registro lirico a quello più appassionato, con acuti squillanti e grande intensità emotiva. Sempre sicuro, Clay Hilly nei panni di Siegfried, generoso di voce ma avaro di sfumature. Albert Dohmen offriva un’interpretazione molto credibile dell’invidioso e avido Hagen; sinistro e drammatico l’Alberich di Ólafur Sigurdarson; ben caratterizzati anche la Waltraute di Christa Mayer, il Gunther di Michael Kupfer-Radecky, dal timbro caldo e dall’ottima presenza scenica, la seducente Gutrune di Elisabeth Teige, dalla voce voluminosa e lirica. Cornelius Meister (subentrato all’ultimo momento in sostituzione di Pietari Inkinen) è stato contestato perché privo di un pedigree wagneriano. Ma la sua direzione è molto fluida, ricca di colori, con momenti di grande potenza evocativa, e con l’ampio respiro che mancava alla regia.
Richard Wagner, Götterdämmerung
Bayreuther Festspiele 2022
Interpreti: Albert Dohmen, Iréne Theorin, Elisabeth Teige, Clay Hilley, Michael Kupfer-Radecky, Christa Mayer, Olafur Sigurdarson, Kelly God
Regia Valentin Schwarz
Bayreuther Festspielorchester, direttore Cornelius Meister
2 blu-ray Deutsche Grammophon 736404