di Attilio Piovano
Per i torinesi, quella di mercoledì 11 ottobre 2023, in Conservatorio, è stata l’ultima occasione in assoluto per ascoltare live il blasonato Quartetto Emerson dalla protratta e gloriosa attività artistica: costituitosi nel 1976, il Quartetto annovera a tutt’oggi un palmarès di riconoscimenti a dir poco sterminato.
Col tour mondiale di fine carriera, tale formazione entrata ormai da tempo nella leggenda abbandona per l’appunto definitivamente le ‘scene’. A invitare l’Emerson sotto la Mole ci ha pensato l’Unione Musicale, e lo ha fatto, significativamente, per la serata inaugurale della propria stagione 2023-24.
Davvero bello (e intrigante) il programma, quasi una sorta di ideale excursus concentrato in tre sole ‘tappe’ entro la pluri secolare letteratura per quartetto, ma con una speciale attenzione al Novecento. E allora, quale raffinato hors d’oeuvre, ecco il geniale Britten, trascrittore di lusso per quartetto d’archi della superba Ciaccona in sol minore del proto barocco Purcell. L’Emerson ne ha ben posto in luce i raffinati contrappunti e certe sue dissonanze sorprendentemente in anticipo sui tempi. Di una esecuzione ammirevole, per energia, eleganza e vigore si è trattato.
Subito dopo, posto a reagire con il cartesianesimo dell’autore di Dido & Aeneas, il sublime Quartetto di Ravel. E si è compreso fin dai primi istanti quanto la formazione ne abbia profondamente metabolizzato l’esprit e le peculiarità linguistico formali. Clima giusto, dunque dolcemente mesto ed eccitato al tempo stesso, effusivo e nel contempo capricciosamente nervoso. Davvero d’eccezione il range dei timbri disvelato dall’Emerson, e così pure ammirevole la gamma delle dinamiche poste in atto, sicché zone incorporee e rarefatte si alternavano ad istanti veementi, rese con una souplesse nel trascolorare da un clima espressivo all’altro che aveva davvero dello straordinario. Ne sono emersi alcuni istanti a dir poco mozzafiato. E poi quanta vis propulsiva e che corposa rotondità di suono nell’Assez vif innervato di robustezza ritmica, con quei suoi energetici pizzicati che parevano scaturire da un ensemble orchestrale di archi, dunque numericamente ben più nutrito di un quartetto. Non solo: i quattro interpreti dell’Emerson possiedono un senso della forma che poche altre formazioni possono vantare.
Del Très lent il Quartetto Emerson ha posto in luce meravigliosamente l’incredibile audacia armonica di una pagina striata di modalismo, tra le più straordinarie dell’intera letteratura cameristica del ‘900. Da ultimo le incandescenze esacerbate del finale (Vif et agité), costellato peraltro di passi eterei, dove a prevalere è però una sorta di fascinosa ‘nevrosi’ di matrice squisitamente novecentesca che seduce e rende inquieti. Tutto questo e molto di più lo si percepiva nella vibrante e sovra eccitata interpretazione dell’Emerson, formazione attenta a conferire il giusto peso ad ogni singola nota, la necessaria rilevanza ad ogni inciso. Rimarchevole, infine, la perizia posta in atto con una naturalezza indicibile nel mostrare la ciclicità e ricorrenza dei temi entri i singoli movimenti del capolavoro giovanile di Ravel, effervescente e charmante.
Da ultimo non poteva mancare il vertice assoluto della letteratura quartettistica di tutti i tempi, il gotha, il K2, l’Everest. E dunque il beethoveniano Quartetto op. 130 così emblematico dell’ultimo stile dell’autore della Nona. Estrapolando dalle moltissime riflessioni critiche che verrebbe spontaneo condividere con i lettori, sia lecito sottolineare almeno la saldezza formale meravigliosamente rivelata dagli interpreti; tra i vari dettagli meritevoli di una sottolineatura, quegli anacoluti del brevissimo secondo tempo, traforato di silenzi e di frasi come proiettate sull’abisso; o ancora certi tratti dalle sonorità quasi fantasmatiche, nella loro spettrale evidenza timbrica. Da ultimo la sorpresa di trovarsi – giustamente – al cospetto della Grande Fuga, in luogo del più addomesticato, bonario e popolaresco Finale poi approntato da Beethoven. Una pagina, la Grande Fuga, concepita al calore bianco di una lucida razionalità compositiva, e al tempo stesso alimentata ad una visionaria concezione creativa che ha tuttora dell’incredibile. A dir poco sublime, l’interpretazione ascoltata, tale l’efficacia da far dimenticare anche ai più pedanti ed ipercritici qualche piccola inesattezza di intonazione qua e là. Ma come si fa a soffermarsi su tali dettagli di fronte ad una visione d’insieme sì netta e pregnante?
Due i graditi bis, dopo lunghi e protratti applausi, con pubblico in piedi, commosso e festante. Di Bach uno dei Corali dell’ultimissima stagione (quasi a sottolineare il senso del commiato), poi di Dvořák uno dei Lieder tratti dalla raccolta Cypresses, dodici del quali trascritti espressamente dal musicista ceco per quartetto d’archi. Quello prescelto rivelava una malinconia tipicamente slava (pur trattandosi di canti d’amore), a rendere palpabile il clima di addio e, per il pubblico, di rimpianto (Sunt lacrimae rerum). Indimenticabile. Per chi c’era – in Conservatorio, a Torino, la sera dell’11 ottobre 2023, grazie all’UM – il gradito ricordo di aver preso parte ad un evento destinato a restare negli annali della storia dell’interpretazione.