di Francesco Lora
Il pericolo di mettere in cantiere un’opera su Raffaella Carrà, personaggio pubblico, della contemporaneità e fenomeno sociale, così fondando un nuovo sottogenere o almeno dando nuova linfa a un sottogenere poco fortunato, il pericolo di ciò – si diceva – è dar luogo a un testo teatrale e musicale agiografico e documentaristico, versione diminuita del gigantesco originale dal quale trae ispirazione.
Sono stati invece astuti a Bergamo, che con Brescia è quest’anno Capitale italiana della Cultura e cerca di darne dunque assennati segni. Sono stati astuti al Teatro Donizetti, in particolare, ove, non paghi di ospitare il più vivace festival operistico italiano di taglio monografico – donizettianamente agiografico, verrebbe da dire, se tuttavia ciò vero non fosse – hanno dato luogo allo spettacolo di genio: esso richiama su di sé tutte le attenzioni per appeal di progetto, fa discutere gli stupidi ma anche chi ha qualcosa da dire, riempie la sala intercettando pubblico di ogni esperienza e indirizzo.
Le terze persone plurali hanno nomi e cognomi: Francesco Micheli, direttore artistico del Donizetti, ideatore del progetto e regista, inesaustibilmente entusiasta e fantasioso, dello spettacolo; Renata e Ciaravino e Alberto Mattioli, che hanno scritto un libretto così strambamente tarato sui nostri giorni da funzionare benone; Lamberto Curtoni, che tale libretto ha posto in musica attingendo a ogni giusta risorsa del linguaggio operistico, fino alla canzone del Novecento; Carlo Boccadoro, il concertatore che di una tale operazione è il miglior candidato naturale onde mediare in semplicità col pubblico; Edoardo Sanchi, Alessio Rosati, Mattia Agatiello e Alessandro Andreoli, ossia gli artefici di scene, costumi, coreografie e luci, cui è stolto chi volesse obiettare: sono anch’essi co-autori del lavoro; infine l’Orchestra Donizetti Opera, l’Ensemble Sentieri Selvaggi, i danzatori della Fattoria Vittadini e il coro di voci bianche dei Piccoli Musici di Casazza, dunque gli organici coraggiosamente impegnati – e impegnati davvero, per obblighi e volontà – in un progetto che non ammette modi da routine.
Tutti insieme hanno portato a battesimo, per quattro recite dal 29 settembre all’8 ottobre, Raffa in the Sky, “fantaopera” in due atti, ma opera fatta e finita, su misura per il 2023. In essa si fantastica, appunto, e adorabilmente, che Raffaella Carrà sia stata un provvidenziale extraterrestre, spedito sulla Terra dal segreto pianeta di Arkadia, ove Apollo XI – non Dioniso XI, si badi bene – regna col consiglio dell’integralista Fidelius; l’extraterrestre ha una precisa e fredda missione estetologica, ma sceglie di divenire strumento di consolazione sociale e consapevolezza di sé, prima nel contesto antropologico italiano dell’ultimo dopoguerra e del relativo boom economico, quindi in quello spagnolo dopo la fine del regime franchista. Una Raffaella Carrà, dunque, reinventata e non per questo meno vera e significativa, nient’affatto messa in discussione come artista ma anzitutto fatta riconoscere per strumento di libertà. Bello. Molto bello. E funziona, tra gente in teatro che ride e che piange, riconoscimento di sé nell’azione, complicità trans-generazionale, l’amico profano che sempre si nega e invece stavolta monta in auto e viene a Bergamo, quello melomane che non viene e poi si pente più che ad aver detto di no a un settedicembre.
Chi canta, e come? Lungi dall’essere rideclinato liricamente, il personaggio Raffaella Carrà rimane un sound intoccabile, vocalmente affidato all’impostazione moderna e alle disinibite doti sceniche di Chiara Dello Iacovo. Sono tutti gli altri ad agire secondo un linguaggio operistico puro e dentro un’impostazione vocale di tipo lirico. Il tenore Dave Monaco veste gli eclettici panni di Apollo XI, della Maestra di danza e del Parrucchiere delle dive; il mezzosoprano Gaia Petrone quelli enciclopedici della Nonna, dell’Ostetrica, dell’adolescente Luca, di Paula de Valencia e di Lola de Pamplona; il basso Roberto Lorenzi quelli sinistri di Fidelius, della Star di Hollywood, del Grande censore e dell’Impresario della tivù. Interpretano parti cucite su di loro e per le quali, ancor prima che si pigliassero ago e filo, sono stati scelti: ci mancherebbe altro che non vi figurino come la perfezione stessa.
Capolavoro nel capolavoro è infine la coppia amorosa, tenuta sotto osservazione, nel libretto e nella partitura, attraverso i decenni della giovanile migrazione al Nord, dell’amore sbocciato all’ombra della fabbrica di elettrodomestici, della casa che cambia al variare delle mode e del potere d’acquisto, dell’alleanza coniugale che va e viene, mentre un figlio omosessuale cresce e cerca di sé dappertutto fuorché in famiglia: alla televisione c’è la Carrà, mentre sul palcoscenico ci sono Carmela Remigio e Haris Andrianos, che tengono, rispettivamente, la parte di Carmela – un’ironica sé stessa – e quella di Vito. Lui è lo stesso baritono che al Festival Donizetti era già stato un Hortensius esplosivo nella memorabile Fille du régiment del 2021: qui mostra di saper essere ancora di più, non un caratterista ma un deuteragonista. Lei – va ripetuto fino allo sfinimento – è il soprano, per giunta italiano, che più di tutti ha imparato, meditato e adattato su di sé la lezione attoriale dell’Antonacci, integrandola in un canto di primissima qualità. Questo e molto più altro è Raffa in the Sky, e fa sentire il bisogno di opera contemporanea, ma quella della quale si sente il bisogno. A quando la prima ripresa?