di Luca Chierici
Mai abbandonato nella programmazione del Teatro alla Scala dal 1868, nelle sue varie versioni in quattro e cinque atti con e senza balletto, Don Carlo ritorna oggi – per la sua quinta inaugurazione di stagione – nella versione in quattro atti che ebbe la sua prima rappresentazione il 10 gennaio 1884 sotto la direzione di Franco Faccio e che in tempi recenti era stata ripresa da Muti (1992), Gatti (2008) e Luisi (2013).
La versione in cinque atti era invece stata presentata nuovamente da Chung nel 2017 con la regìa di Peter Stein e con un cast che comprendeva Francesco Meli (Don Carlo), Simone Piazzola (Posa), Ferruccio Furlanetto (Filippo II), Krassimira Stoyanova (Elisabetta), Ekaterina Semenchuck (Eboli) ed Eric Halfvarson (L’Inquisitore).
Sul podio vi è oggi Riccardo Chailly, che guida un cast innovativo con l’importante presenza di Anna Netrebko (Elisabetta), Michele Pertusi (Filippo II), Luca Salsi (Posa), Elina Garanča (Eboli), Jongmin Park (l’Inquisitore) mentre si ripete ancora la presenza di Francesco Meli nel ruolo del titolo. Il coro è diretto da Alberto Malazzi. La regìa è affidata a Lluís Pasqual, le scene a Daniel Bianco, i costumi a Franca Squarciapino. Le luci sono di Pascal Mérat, i video di Franc Aleu, i movimenti coreografici di Nuria Castejon.
Dunque la versione in quattro atti si apre e si chiude nel Convento di San Giusto, luogo dove al termine dell’opera si verifica l’ultimo incontro tra Don Carlo e la Regina Elisabetta e la comparsa di un Carlo V redivivo che prende Don Carlo sotto la sua ala protettrice. Finale notoriamente inverosimile che chiude la complessa drammaturgia del capolavoro verdiano a propria volta derivato da Schiller.
Che cosa vede Chailly in questo Don Carlo? Innanzitutto un collegamento con Macbeth e il Boris di Musorgskij collegamento già intravisto da diversi studiosi tra i quali il nostro Michele Girardi che individua il fil rouge “nelle logiche spietate dei detentori di un potere assoluto che disintegra l’aspirazione alla felicità individuale e collettiva degli oppressi”. La memoria fondamentale per Chailly è il Don Carlo del 1968, quando ebbe la fortuna di seguire le prove di Claudio Abbado. Come spesso accade, Chailly punta l’attenzione su certi particolari come l’accompagnamento con i violoncelli plurimi in “Ella giammai mi amò” come era avvenuto nella prima parigina in cinque atti. Dell’orchestrazione della versione in quattro atti del 1884 Chailly sostiene la particolare concisione e il “nerbo”. Esperto di questa prova, Chailly aveva già eseguito non molti anni fa tutta la grande scena di Filippo II con Abradzakov alla Scala e «Tu che le vanità» era già stata incisa in cd con la Netrebko. Chailly sottolinea il senso spettrale del colore grave dell’orchestrazione, così diversa e più moderna rispetto alle opere verdiane precedenti.
Tra i protagonisti vocali spicca appunto la Netrebko, vera e propria “leonessa” che combatte la propria solitudine e la propria tragedia, mentre la Garanča è una Eboli che unisce con successo una tecnica belcantistica nella «Canzone del velo» a una tragica nel famoso «O Don fatale».
Francesco Meli aveva già affrontato il ruolo e ne ha approfondito gli aspetti. Luca Salsi (Posa) ricalca giustamente un ruolo di salvatore delle Fiandre. Secondo Pertusi il protagonista è un personaggio anti-sovranista che si contrappone ai poteri totalitari e dittatoriali che governano la Spagna dell’epoca. Il grande Inquisitore, all’ultimo sostituito da Jongmin Park, ha impersonato la terribile figura che si erge addirittura al di sopra di Filippo II per ordinare l’uccisione del Marchese di Posa, allo scopo di salvaguardare la ragion di stato.
I costumi di Franca Squarciapino ricordano il nero come segno di ricchezza e non di lutto mentre l’oro voluto da Pasqual e Bianco simboleggia la ricchezza trionfalistica del Regno di Spagna.
Regia e scenografia (quest’ultima piuttosto ripetitiva) puntano sull’alabastro presente nelle finestre degli edifici religiosi e anche civili con particolare riferimento alla grande finestra della Collegiata di Santa Marìa La Mayor nella città di Toro. Una enorme torre di alabastro è inquadrata in una serie di cancellate, a formare grandi spazi nel palcoscenico che delimitano le forme di intimità e di isolamento che accompagnano la grande tragedia.
La prima parte dell’opera ha stentato un poco a decollare mentre via via il prosieguo ha puntato le carte migliori non tanto sul lato politico della vicenda quanto sui rapporti spesso contrapposti tra tutti i protagonisti. Il duetto «Dio, che nell’alma infondere» suggella il rapporto di amicizia affettuosa tra Carlo e Posa, Eboli attira l’applauso con la sua «Canzone del Velo», il duetto Elisabetta-Don Carlo riscuote il giusto successo, così come il duetto tra Filippo II e Posa pone le basi su un rapporto conflittuale che avrà termine con l’uccisione di Posa da parte degli armigeri del Grande Inquisitore.
Chailly conduce con eleganza l’introduzione dell’atto II e tutto il teso rapporto tra Carlo e Eboli fino a sottolineare con veemenza la scena dell’autodafè e il cambiamento tragico del rapporto tra Posa e Carlo nel momento in cui quest’ultimo minaccia l’uccisione del padre. Nell’atto III Filippo trasforma la collusione politica nel vero e proprio dilemma amoroso che lo separa da Elisabetta, per poi piegarsi al volere dell’Inquisitore, che chiede la morte sia di Posa che di Carlo. Chailly riesce a questo punto a trasformare in maniera sempre più tragica il rapporto tra i protagonisti svelando le macchinazioni di Eboli nei confronti di Elisabetta e il pentimento di Eboli stessa nel famoso “O don fatale”. L’assassinio di Posa, l’ultimo duetto tra Don Carlo ed Elisabetta portano la vicenda al precipizio con l’apparizione di Carlo V che protegge il nipote condannato.
Con l’avanzare della vicenda si diceva che la partecipazione di Chailly accompagna in maniera mirabile le esternazioni dei protagonisti tutti unificando il materiale tematico musicale e l’appassionato scambio vicendevole tra caratteri così in conflitto tra loro.
Il pubblico ha seguito con emozione i momenti musicali più famosi dei tre ultimi atti riconoscendo in tutti i protagonisti una abilità e una partecipazione al di sopra di ogni aspettativa, nonostante una defaillance di Pertusi, annunciata da Meyer ma in fin dei conti poco decisiva per il finale d’atto.
Applausi a scena aperta e riconoscimenti finali per tutti i cantanti e il coro diretto da Malazzi. Pochissimi e poco spiegabili dissensi finali per il Direttore e più rumorosi per il complesso dei responsabili scenici.