Nella cornice del Conservatorio Verdi di Torino, per la stagione dell’Unione Musicale, il violinista e la Camerata Ducale propongono pagine di Tartini, Locatelli, Paganini e Ravel. Rimonda suona lo Stradivari appartenuto a Jean-Marie Leclair
di Attilio Piovano foto © Buat
Un violino davvero speciale, quello di Guido Rimonda che a Torino, domenica 21 febbraio 2016, ha interpretato pagine per lo più ‘demoniache’ di Tartini, Locatelli, Paganini ed altri, unitamente alla Camerata Ducale, guidando con autorevolezza la compagine, ma soprattutto presentandosi in veste di solista di lusso. Un violino speciale per il suo suono, corposo e dolcissimo nel contempo, più ancora per la sua storia curiosa, intrigante e misteriosa. Si tratta infatti del pregevole Stradivari appartenuto al tardo barocco Jean-Marie Leclair dalla vita avventurosa e dalla fine avvolta di mistero: ipocondriaco e misantropo, negli ultimi anni della propria vita si richiuse in se stesso isolandosi dal mondo. Morì assassinato, a Parigi, nell’ottobre del 1764, con un pugnalata alla schiena; del killer e del movente di tale gesto efferato (invidia professionale? denaro? questioni di donne?) mai si seppe nulla. Leclair fece però in tempo a trascinarsi per qualche passo in quella sua periferica abitazione e prendere in mano il suo violino prezioso, uno Stradivari del 1721. Il cadavere venne scoperto solamente due mesi dopo e il corpo, ormai in via di decomposizione, lasciò una macchia nerastra della mano che ancora oggi è visibile sullo strumento, passato di proprietario in proprietario ed approdato a Guido Rimonda che lo suona ormai da anni in concerto.
La denominazione di violon noir appare quanto meno ovvia. Meno immediato quell’altro nomignolo, ‘la voce di un angelo’ coniata da Somis per delineare il suono pastoso e dolcissimo dello strumento stesso. Lo si comprende però all’istante all’udire il suono del violino. Con coreografica e calcolata maestria attoriale, Rimonda entra in sala dal fondo, suonando la Danza degli spiriti beati dall’Orphée et Eurydice di Gluck; passi lentissimi e misurati, nella sala semi buia raggiunge l’orchestra che, con le sole lucine sui leggii, ha già ‘aperto’ eseguendo (senza direttore) parte della Sinfonia in fa minore di Locatelli dall’allure decisamente funebre (‘composta per l’esequia della sua Donna che si celebrarono in Roma’), un breve Largo e poi un austero fugato. Ed ecco che quel contrasto tra vicenda ‘noir’ e suono angelico appare subito un fascinoso ossimoro, posto a propiziare la serata. Che prosegue con la Sonata in sol minore del diabolico Tartini (detta ‘il trillo del diavolo’) eseguita nella curiosa, anti filologica e pur efficace rielaborazione moderna di Zandonai (con pianoforte, timpani dal suono soffocato, triangolo e piatto cinese ad aggiungere un quid di arcano e inquietante).
Rimonda, con amabile charme, narra lungamente del celebre episodio-leggenda secondo il quale il diavolo stesso sarebbe apparso al violinista istriano, suonandogli quella musica diabolica che al suo risveglio egli seppe metter su carta, con febbrile frenesia. Rimonda narra anche dell’abilità di Tartini come spadaccino, del suo amore per la bellissima Eleonora, nipote del vescovo di Padova e del divieto di celebrare il matrimonio (per la di lui propensione alle armi e per certe intemperanze caratteriali). Inviato in una sorta di esilio ad Assisi, Tartini suona quasi in incognito in Cattedrale, ottenendo da ultimo il permesso di far ritorno e di sposarsi. Lieto fine garantito, dunque. Rimonda possiede tecnica solida e innegabile magnetismo, sicché la celebre Sonata si guadagna copiosi e meritati applausi.
Curiosa poi la decisione di inserire in programma la raveliana Pavane pour une Infante défunte che notoriamente il musicista basco scrisse, non già pensando ad una destinazione funebre, bensì perché attratto da quella allitterazione fonetica del titolo (e per l’occasione agli archi si aggiunge una manciata di fiati). Non solo (questo però Rimonda non lo ha narrato…) ad un’interprete che un giorno eseguì la versione pianistica troppo moscia Ravel con pungente ironia fece notare che si trattava non già di una pavana defunta, bensì di una pavane tout court. L’edizione proposta pone in luce il violino solista e ben si inserisce con la sua dolcezza venata di spleen nel clima della serata che prosegue poi con le Streghe di Paganini (Variazioni su Il noce di Benevento di Süssmayr), del quale Rimonda racconta affascinando il pubblico ben noti e celeberrimi dettagli: il fisico emaciato, l’abuso di mercurio e la conseguente perdita dei denti, l’afonia, la fama di demoniaco, la morte misteriosa e soprattutto il peregrinare della bara imbalsamata in varie cantine di Nizza e via elencando. Non si parla del morbo di Marfan, invece che probabilmente fu la ragione di quella inconsueta e provvidenziale iper flessibilità della mano che consentì a Paganini di fare cose irripetibili, ovvero possibili a lui solo (‘Paganini non ripete’, la leggendaria frase che tutti conoscono) e allora le varie ipotesi, tra cui quella legata ai concerti mancati in Piemonte dopo la querelle con Carlo Felice a seguito di un concerto al Carignano, così narra Rimonda, che delle Streghe fornisce un’interpretazione di alto livello e innegabile magnetismo, ben assecondato dalla ‘sua’ Camerata Ducale. E si sa, è un pezzo irto di difficoltà, note flautate, virtuosismi diabolici, pizzicati ed insidiosi glissandi e molto altro ancora: un pezzo che pochi riescono a suonare con sicurezza e souplesse come volando sulle difficoltà, un pezzo che richiede tecnica solidissima e nervi saldi.
Non basta: viene proposto ancora il tema struggente della colona sonora del fortunato film Schindler’s List, ed è facile intuire le ragioni dell’inserimento in relazione alla mano diabolica che forse sovrastò la tragedia della Shoah, accanto alle innegabili responsabilità umane. Poi la Légende di Wieniawski, scritta come la pagina di Tartini in un sol minore foriero di pathos e intensità espressiva, quindi da ultimo ancora Paganini e si tratta del Tema e Variazioni in mi maggiore, scritto per Maria Luigia di Parma, brano impregnato di una sua nobile serenità che non a caso alla Granduchessa dovette fare una buona impressione. Forse non è escluso che tale dedica abbia giocato un ruolo nel convincerla ad accogliere a Parma finalmente la salma del povero Paganini e garantirgli una degna sepoltura.
Due i bis, manco a dirlo ancora Paganini: le solistiche Variazioni su Nel cor più non mi sento e, con orchestra, il celeberrimo Cantabile che ha chiuso la serata con pacificante dolcezza. Trionfo di pubblico, applausi a non finire e il consueto rito della firma all’omonimo cd Decca (Le violon noir) che di fatto riproduce il contenuto della serata. Ma avervi partecipato de visu è altra cosa dall’ascolto riprodotto. Come sempre.