I concorsi e la vita concertistica
di Roberto Prosseda
I concorsi internazionali di esecuzione musicale rappresentano senza dubbio un importante banco di prova per un giovane interprete: si tratta di occasioni fondamentali per misurarsi con il palcoscenico, per farsi ascoltare da una platea vasta e qualificata, e, nei migliori dei casi, per intraprendere una gratificante attività concertistica. È naturale, dunque, che la maggior parte degli studenti di musica considerino la preparazione dei concorsi importanti come il fine principale del loro lavoro. Vale la pena, allora, analizzare l’approccio diffuso dei giovani interpreti verso i concorsi, alla luce delle reali esigenze del mondo concertistico, che non sempre coincidono con le prerogative necessarie alla vittoria di una competizione.
Oggi per un musicista non è più sufficiente vincere un primo premio importante per avere la certezza di intraprendere (e tanto più mantenere) una vera, stabile professione concertistica. E a volte di primi premi non ne bastano neanche quattro o cinque: i concorsi possono offrire grosse somme di denaro, numerosi concerti anche in sedi prestigiose, ma la gloria tende ad esaurirsi nel giro di alcuni anni (di solito fino alla proclamazione del vincitore successivo), se il vincitore non ha tutte le carte in regola per affrontare la reale vita concertistica.
Quali sono dunque le doti che un musicista in carriera deve possedere? Per rendersene conto, basta osservare quelli che sono gli attuali grandi interpreti. Oltre al talento ed alla cultura (che sono ovviamente i requisiti minimi indispensabili), essi in massima parte possiedono una straordinaria versatilità, ossia sono in grado di eseguire molti programmi di recital in pochi giorni, spesso alternando l’attività solistica a quella cameristica. Le grandi agenzie tendono a lanciare un giovane talento in maniera spesso brutale, programmando un numero elevato di concerti importanti in giorni ravvicinati. A volte basta un minimo cedimento nervoso per compromettere una carriera. Ergo: anche per un’intensa attività concertistica occorrono nervi d’acciaio. Vanno rodati ed allenati regolarmente, e non è detto che la sola esperienza dei concorsi sia sufficiente, anche perché si tratta di un diverso genere di stress. Quasi mai in una competizione è richiesto di imparare un nuovo brano in pochi giorni, o di preparare un concerto o un programma di recital in un periodo molto limitato: situazioni, queste, che spesso capitano ad un concertista, specie ad un giovane a cui si chieda una sostituzione dell’ultima ora. Ma, soprattutto, un vero interprete deve assolutamente possedere una personale coscienza critica, ponendosi in rapporto con la storia dell’interpretazione e della civiltà: l’approccio con la musica è in continua evoluzione, parallelamente con lo sviluppo della società e della cultura contemporanea.
Il repertorio del vero concertista: non solo “pezzi da concorso”
Un’altra caratteristica molto importante per il successo di un concertista è la vastità e l’originalità del repertorio, nonché la creatività nell’impaginare i programmi di recital: difficilmente chi suona esclusivamente le musiche più conosciute e di frequente ascolto riesce a sviluppare una carriera soddisfacente. È inoltre molto stimolante eseguire brani di autori conosciuti solo marginalmente, anche se non geniali come Beethoven o Chopin; oppure proporre, degli stessi compositori più noti, anche i pezzi di ascolto meno frequente (e sono proprio molti, in gran parte vittime di un ingiusto oblio). In tal modo il ruolo dell’interprete assume anche una funzione divulgativa particolarmente utile, contribuendo all’arricchimento culturale della propria società. Per un esecutore è particolarmente gratificante, inoltre, collaborare direttamente con i compositori contemporanei: un modo per integrare il ruolo del concertista nel momento attuale, smentendo il luogo comune secondo cui gli strumentisti “classici” svolgono un mestiere anacronistico.
I concorsi, purtroppo, non sempre agevolano affatto simili aperture: anzi, essi di solito prescrivono un repertorio tradizionale, costituito in gran parte da alcuni capisaldi della produzione strumentale. Se da una parte ciò consente di valutare al meglio le qualità esecutive del concorrente, grazie anche al confronto con una vastissima discografia e una lunga tradizione interpretativa, d’altra parte, in tal modo i “concorsisti” si troveranno tutti con un repertorio simile, spesso non molto esteso, ed incentrato su musiche arcinote ed inflazionate, sulla cui interpretazione è ben difficile (nonché rischioso, in sede di concorso!) aggiungere qualche nuovo elemento.
L’esigenza di raffinare al massimo la preparazione strumentale spesso li induce a concentrare lo studio su quei pochi “cavalli di battaglia” (a volte si tratta degli stessi pezzi da oltre dieci anni) da sfoggiare nelle competizioni, senza poter ampliare sufficientemente il loro repertorio e, conseguentemente, il loro bagaglio culturale.
Certo, è giusto che un giovane interprete affronti le opere più rappresentative per il suo strumento, ma va da sé che cento musicisti (pur bravi e preparati) che suonano gli stessi pezzi non troveranno tutti uno sbocco adeguato nella vita concertistica. I “concorsisti” peraltro spesso rinunciano all’apprendimento di brani di più raro ascolto, per paura che questi vengano considerati con sufficienza, se non con pietosa ilarità, da alcuni giurati. Il candidato che propone qualcosa di “originale” può in effetti dar l’impressione di voler evitare il confronto diretto con i “rivali”, e di voler così camuffare la propria inadeguatezza ad affrontare il repertorio tradizionale.
Invece proprio quei brani potrebbero offrire maggiore successo e notorietà ad un giovane musicista: del resto, la fama di alcuni degli attuali interpreti più affermati è proprio legata all’originalità del loro repertorio. Lo stesso Maurizio Pollini ha esordito con la Deutsche Grammophon in un cd dedicato a musiche di Webern, Boulez, Prokofiev e Strawinsky (allora i Trois Mouvements de Petroushka non erano di moda come oggi), ed è stato tra i primi a presentare regolarmente nei suoi recital musiche di Schoenberg, Boulez, Stockhausen e Sciarrino. E, facendo un passo indietro, va ricordato che Walter Gieseking ha legato il suo nome alla divulgazione delle musiche di Ravel e Debussy, ed Arthur Schnabel non sarebbe tanto celebre se non fosse stato il primo ad incidere tutte le sonate di Beethoven ed a presentare in concerto l‘integrale delle sonate di Schubert, quando esse erano del tutto ignote al grande pubblico. Più recentemente, star (pur non ancora celeberrime in Italia) del calibro di Marc André Hamelin e Pierre Laurent Aimard hanno guadagnato il successo grazie alle incisioni di autori come Godowsky, Alkan (Hamelin) e Ligeti (Aimard). E c’è ancora una infinità di composizioni in attesa di una meritata riscoperta, o addirittura di una prima esecuzione!
La ricerca interpretativa
Con quanto detto non si intende certo scoraggiare l’apprendimento del repertorio tradizionale. Anzi, proprio dalla frequentazione di musiche meno conosciute, di territori “vergini” dal punto di vista della tradizione esecutiva, è possibile trarre una nuova freschezza di idee, con benèfici effetti sull’approccio con le composizioni di repertorio.
E qui veniamo ad un altro punto saliente: siamo sicuri che i concorsi incoraggino l’approfondimento interpretativo e la ricerca di nuovi aspetti dell’esecuzione? A giudicare dai verdetti di molte recenti competizioni internazionali, pare proprio il contrario. Spesso, come più volte è stato osservato, i candidati dotati di maggior personalità vengono penalizzati poiché destabilizzano l’ascolto: essi richiedono una maggiore concentrazione, un superiore sforzo di adattamento da parte dei giurati, i quali non sempre sono propensi a mettere in discussione le proprie idee, specie quando ascoltano musica per dieci ore al giorno. Invece i concorrenti che propongono esecuzioni più neutre, prive di elementi originali o innovativi, hanno spesso vita facile ed incontrano maggiori consensi durante la competizione, per poi scomparire rapidamente dalla vita concertistica.
La consapevolezza di questo meccanismo influenza, purtroppo, anche la preparazione dei “concorsisti”. Quante volte gli insegnanti ammoniscono: “attento a non esagerare, altrimenti ti eliminano”! Insomma, la paura di essere in qualche modo “attaccabili” può determinare nei candidati la costante ricerca di un utopistico equilibrio interpretativo, che nei migliori dei casi comporta esecuzioni neutre e prive di individualità, e nei peggiori è sinonimo di mediocrità e carenza creativa (la quale, peraltro, può paradossalmente rivelarsi un’arma “vincente”).
Le giurie
È evidente che la causa prossima di una simile mentalità va ricercata nella composizione delle giurie. Scorrendo i nomi dei giurati dei recenti grandi concorsi pianistici internazionali saltano all’occhio alcune interessanti singolarità: quasi tutti sono pianisti, o ex pianisti, o insegnanti di pianoforte. Salvo poche eccezioni, mancano i direttori d’orchestra, i compositori e comunque altri musicisti non pianisti. Perché? La giustificazione è presto data: se i giurati non conoscono la letteratura dello strumento che ascoltano, non saranno in grado di giudicare adeguatamente. Ma sarà proprio così? Credo di no: anzi, proprio in virtù di una visione astratta e non meccanicistica dell’esecuzione, essi potrebbero avere una percezione più libera da pregiudizi e preconcetti. Del resto, una giuria di soli pianisti in un concorso pianistico può corrispondere ad una giuria di sole “miss” o ex “miss” alle selezioni di miss Italia. Va da sé che il pianista giudicherà un suo collega con un inevitabile, anche se spesso inconscio, confronto con se stesso, con le proprie scelte, con le proprie esperienze esecutive (peggio ancora se il malcapitato concorrente viene visto come un temibile rivale). Così come è probabile che una ex “miss Italia” preferisca la candidata che più le ricorda se stessa da giovane!
La presenza di insegnanti, poi, comporta molteplici conflitti di interesse, specie quando sono in gara i loro stessi allievi. E non serve a molto la consueta regola di far astenere il maestro dal votare per il proprio “protetto”: egli potrà sempre agevolarlo con voti di scambio oppure attribuendo punteggi molto bassi ai rivali più pericolosi.
Vi sono, inoltre, una decina di nomi (e non si tratta certo di personalità artistiche di spicco!) che compaiono regolarmente in molte delle giurie dei concorsi pianistici più prestigiosi. Guarda caso, si tratta spesso di insegnanti che sono anche presidenti o direttori artistici di qualche concorso. Costoro, invitandosi reciprocamente, determinano una poco salutare uniformità, non solo nella composizione delle giurie, ma anche nella selezione dei premiati: chi ha già vinto un concorso organizzato da uno di loro sarà certamente agevolato nel vincerne un secondo, grazie ad una politica protezionistica basata su favori reciproci, anche a distanza.
Arte e competizione: un binomio accettabile?
Con ciò non si vuole scoraggiare i giovani a partecipare ai concorsi, tutt’altro. Ma è importante vivere serenamente simili esperienze, approfittare del confronto reciproco per arricchire le proprie conoscenze, senza lasciarsi condizionare negativamente: già, perché vi sono pericolosi effetti a lungo termine che il sistema di preparazione dei concorsi può generare sui candidati.
Il rischio maggiore riguarda proprio la genuinità e la completezza della loro formazione musicale. È preoccupante la tendenza, oggi molto diffusa tra i giovani studenti (e rispettivi insegnanti), a finalizzare lo studio alla vittoria di un concorso, quasi che questo sia l’obbiettivo primario ed il fine ultimo del percorso didattico. Senza dubbio, è positivo che un concorso possa stimolare una maggiore determinazione nella preparazione, ma spesso il verdetto della competizione diventa più importante del risultato artistico, con pericolose conseguenze, sia per i vincitori che per i “perdenti”.
La vittoria di un prestigioso premio può, infatti, alimentare la convinzione di essere artisti completi, causando un calo del rendimento e della ricerca interpretativa (caso quanto mai frequente tra i primi premi dei concorsi internazionali). L’abitudine, poi, a studiare in funzione di una competizione può generare una vera e propria dipendenza: quasi che non si possa fare a meno di continue verifiche esterne per vedere confermata (o meno!) la propria adeguatezza all’esecuzione musicale. Molti vincitori non riescono a mantenere lo stesso livello qualitativo nei loro concerti perché manca lo stimolo del confronto con altri concorrenti, o con una “temibile” giuria.
L’eliminazione da un concorso può spesso determinare depressione, perdita di sicurezza nei propri mezzi, o per lo meno un naturale, ma non certo benefico, senso di frustrazione. Un concorrente eliminato rischia così di oscurare gli elementi più genuini ed originali della propria personalità artistica, considerando questi come la causa dell’insuccesso.
Affrontare il concorso come fosse un concerto
Cosa deve fare, dunque, un aspirante concertista per sopravvivere a tutto ciò, e per trovare una reale soddisfazione professionale ed artistica? Innanzi tutto, aprire gli occhi. I concorsi, è bene ribadirlo, sono molto utili per iniziare la carriera: vincerli è meglio, ma perderli non comporta alcuna preclusione. L’importante è avere una piena consapevolezza della propria missione, del proprio ruolo, e trovare una più alta gratificazione nel piacere stesso del far musica, nell’energia e nella poesia che in essa possiamo scoprire. Specialmente oggi il mondo musicale ha bisogno di interpreti creativi, ricchi di immaginazione, spirito di iniziativa, intraprendenza, curiosità, e soprattutto con l’urgenza di dire qualcosa di autentico, di far partecipi gli ascoltatori di una nuova scoperta, di una “verità” da diffondere con entusiasmo e sincerità. È inoltre importante non rinchiudersi, ma guardarsi intorno e cercare tutte le opportunità per farsi conoscere e apprezzare. E non si tratta solo dei concorsi: anzi, spesso un’incisione discografica riuscita o una buona audizione presso un importante direttore artistico risulta molto più proficua della vittoria di un primo premio.
Esistono, poi, molti concorsi “illuminati”, che gradualmente stanno modificando il regolamento (e le giurie) per avvicinarsi alle reali esigenze della vita concertistica. Ma ciò che più conta è che il candidato affronti il concorso con la mentalità del “concertista”: e ciò sarà più facile nel momento in cui egli saprà dire qualcosa di speciale, di unico, che lo renda distinguibile da tutti gli altri.
Roberto Prosseda
Molto interessante ! In accordo su tutto. I conservatori dovrebbero essere un po’ piu’aperti, meno rattrappiti.Forse e’ pretendere troppo.
Sono pienamente d’accordo con il M° Posseda quando dice che il mondo musicale è fatto di scambi di favori e che spesso i vincitori di concorso sono il frutto di favori reciproci, Ho abbastanza esperienza per sapere che i migliori vengono eliminati alla radice, Sono d’accordo perchè verificato personalmente che molti non escono dal loro repertorio per decenni e che non si preoccupano di rinnovarlo nonostante si considerino concertisti . D’accordo sulla poca versatilità della maggior parte dei giovani, meno d’accordo sul fatto che le frustrazioni alle competizioni portino al senso di inadeguatezza, quello dipende dal carattere e dalla consapevolezza che i concorsi sono per il 99 per cento truccati. Si spera solo facendoli che ci sia qualcuno che possa notare il vero talento e che gli dia una chance. Mio figlio Giulio Menichelli ha dato prova di possedere tutte le qualità del buon concertista, ha eseguito 10 programmi diversi in dieci concerti nell’arco di 15 giorni, a 8 anni eseguiva il moto perpetuo di paganini, ha un carattere che lo ha sempre portato a continuare gli studi nonostante le frustrazioni, ha iniziato a fare concerti a 14 anni e ora che ne ha 20 si sta diplomando presso l’Accademia di Santa Cecilia per violino e musica da camera e sta conseguendo il Master Interpretation in svizzera, a Giugno avrà 3 esami con 3 programmi diversi dove deve essere in grado di suonare nell’arco di 15 giorni oltre il programma per l’esame di musica da camera , a Roma e a Sion, i programmi previsti per violino: il concerto di Sibelius, Brahms Tchaykovski e Wieniawski, tre sonate Prokofiev n° 2, Beethoven n° 7 e Debussy, pezzi virtuosistici del calibro del Faust di Wieniawski, Scherzo Tarantella e Szymanowski Nocturne and Tarantella, non ha mai vinto un concorso importante e i baroni della musica non lo hanno mai aiutato, lui va avanti lo stesso, prima o poi qualcuno si accorgerà di lui. Quest’anno smetterà di studiare perchè non esistono in Italia borse di studio per il suo caso
Per chi fosse curioso:
https://www.youtube.com/watch?v=JtGb5VcdKxM
https://www.youtube.com/watch?v=d1nOK5s4MEo
https://www.youtube.com/watch?v=e7zKDbtAuS4
e tanto altro… tutti i suoi concerti sono su you tube, sono tutti live non taroccati in nessun modo
Qualche giorno fa ho condiviso su FB l’articolo sopracitato di Roberto Prosseda. In linea di massima concordo in tutto quello che lui dice tranne quando parla del repertorio standardizzato che i giovani pianisti sarebbero “costretti” ad imparare.
Prima di esporre il mio personale pensiero vorrei fare un piccolo preambolo. In tutto l’articolo di Prosseda è facile evincere la netta distinzione, che lui fa, tra arte-standardizzata, sottomessa a regole, prassi, obblighi stabiliti dal sistema accademico e concorsistico E arte vera, libera da qualsiasi clichè e soggetta solo all’ispirazione del musicista e alla voglia di esprimersi e di condividere le opere d’arte di sommi geni del passato, anche recente.
Ora.. alla luce di questo, anche la scelta di un repertorio da proporre in sede di concerto, dovrebbe nascere da una completa libertà e soprattutto dalla NOSTRA SINTONIA con determinati autori e determinati brani.
Perchè affermo questo ? Perchè nonostante Prosseda citi dei colossi del concertismo passato ( Gieseking piuttosto che Schnabel ecc. ) a sostegno della sua tesi ..- cioè scelta di autori o brani meno inflazionati per offrire novità e freschezza ai programmi da concerto – trovo che molto spesso OGGI si ricorra a questo “espediente” per poter fare i concerti. Cioè propongo “cose nuove” così probabilmente mi fanno suonare !!
Logicamente il proporre “cose nuove” può non essere così semplice come si pensa, e questo anche dal punto di vista prettamente tecnico strumentale. L’esempio è proprio Hamelin, citato da Prosseda, che ha suonato l’integrale di Alkan, autore tecnicamente molto molto difficile ! Ma gli esempi ODIERNI possono essere altri : il primo che mi viene in mente è Carlo Grante, con le sue integrali di Busoni, di Godowsky o di Sorabji ed ora di Scarlatti. Stiamo parlando di 4 imprese titaniche sotto tutti i punti di vista.
Quindi il punto NON E’ il repertorio in se, MA la molla che ci spinge ad affrontarlo, lo SCOPO e la nostra effettiva sintonia con esso.
Non di rado infatti si sente parlare di “scelta discografica”… secondo la quale l’ipotetica etichetta concederebbe al pianista l’opportunità di registrare dei dischi a patto che si scelga un repertorio meno battuto o addirittura l’integrale di qualche autore sin ora ignorato o sconosciuto.
In tutto questo DOVE STA L’ARTE E LA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE ?
Lo stesso Prosseda è stato spesso chiamato a suonare opere di Mendelssohn in virtù di una sua scoperta di suoi brani inediti o totalmente sconosciuti. Se il tutto fa parte della nostra natura artistica, ben venga.. altrimenti si rischia di uscire dalle logiche “concorsistiche” e di cadere in ALTRE logiche che, allo stesso modo, nulla hanno a che fare con l’arte pura.
Prosseda cita ALCUNI concertisti del passato e del presente … ma QUANTI ne sono esistiti che hanno fatto una carriera concertistica importantissima con repertori TRADIZIONALISSIMI !! Potrei stare qui decine di minuti per citarli tutti.
Insomma ..se a me piace la Ballata n.1 di Chopin o l’op.27 n.2 o l’op.13 o l’op.57 di Beethoven o il Libestraum n.3 di Liszt ..( cito solo alcuni brani eseguiti ..credo centinaia di volte durante tutta la storia del pianoforte ) perchè mai devo privarmi del piacere di suonarli anche in pubblico ? E perchè mai le società concertistiche non dovrebbero accettare di inserirli in cartellone per l’ennesima volta ?
Dirò di più : trovo INVECE che molti di questi brani, ritenuti TROPPO suonati ( un motivo ci sarà no ?!? ), siano POCO ESEGUITI OGGI.
E questo perchè c’è l’eccessiva ricerca di “cose nuove” !!
Se usciamo poi dal mondo accademico elitario, da quello dei cosiddetti esperti o addetti ai lavori, trovo che l’operazione da fare sia proprio quella opposta. Cercare di ri-diffondere opere che OGGI, data l’estrema ignoranza della massa in tema classico-musicale, sono tornate ad essere TOTALMENTE sconosciute ! ( ed io, dato il lavoro che faccio, ne ho la conferma TUTTI i giorni !!)
Ognuno, come ho spesso affermato, alla fin fine segue la propria indole e le proprie CAPACITA’ ( per me sarebbe IMPOSSIBILE il solo pensare di affrontare repertori alla Hamelin o alla Grante !!), per cui devo affermare che ho sempre preferito suonare opere celebri e altrettanto BELLE ( la lista sarebbe lunghissima !!) invece di andarmi a cercare chissà cosa e privarmi del piacere di interpretare per la duecentesima volta la Ballata n.1 di Chopin.
Sicuramente una cosa non esclude l’altra..e di solito chi è grande sa fare l’uno e l’altro semplicemente perchè ha capacità di apprendimento notevolissime !!
Il punto, lo ribadisco, è : non confezioniamo programmi da concerto per esigenze ESTRANEE alla NOSTRA verità e quindi all’Arte.