Il pianista britannico si è esibito con il Primo concerto di Liszt. Il direttore milanese ha diretto l’Ouverture Tragica di Brahms
di Luca Chierici foto © Decca/Sophie Wright
Riccardo Chailly si è presentato l’altra sera al pubblico scaligero con un programma brahmsiano che incorniciava l’esecuzione del Primo concerto di Liszt da parte del giovane pianista britannico Benjamin Grosvenor. Il lavoro continuo con l’orchestra della Scala, l’approfondimento dei testi, l’esperienza maturata alla guida di grandi complessi stranieri sono elementi che hanno sicuramente contribuito nel caso del direttore milanese al raggiungimento di un grado di professionalità altissimo. Tenere sotto controllo tutti i parametri che sono alla base di una esecuzione tecnicamente perfetta, con un livello assoluto di chiarezza del singolo dettaglio, e allo stesso tempo infondere al discorso quel respiro, quella passione che sono l’essenza stessa della grande musica rappresenta però un traguardo possibile solamente in presenza di una natura artistica e di un gusto innati che portano oggi Chailly, in questo caso nella sua lettura del repertorio sinfonico romantico e tardo romantico, ad avere ben pochi rivali. Se poi al raggiungimento di un risultato che ci è parso di eccezionale spessore contribuisce in maniera decisiva anche un’orchestra che non solo ha realizzato alla perfezione le indicazioni del direttore, ma che ha fatto sua una lettura nella quale si percepiva un comune consenso di idee, ecco che la serata raggiunge giustamente l’apice del successo e il plauso senza riserve da parte di un pubblico attento e partecipe.
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Nell’Ouverture Tragica che ha aperto il programma, Chailly è riuscito persino a illustrare certe affascinanti anticipazioni brahmsiane (ad esempio molti colori e citazioni melodiche e armoniche più tardi impiegati nella quarta sinfonia) dimostrando come esistano degli invarianti nella poetica del compositore amburghese che vengono citati nel corso di tutta una lunga e complessa produzione, quale che sia il mezzo utilizzato, sia esso quello orchestrale che quello cameristico o vocale. Ancor più difficile da contenere all’interno di una visione unitaria è la splendida Seconda sinfonia, nella quale è facile abbandonarsi all’espansione di una cantabilità cullante o alla ebbrezza di un finale che smuove le emozioni anche dell’ascoltatore più refrattario, perdendo però di vista l’arco narrativo che è alla base della concatenazione dei quattro movimenti. A pochissimi – e Chailly è senza dubbio tra costoro – è concesso in questo caso di raggiungere quell’equilibrio perfetto tra forma e contenuti, tra dottrina ed emozioni che pare essere la chiave segreta per accedere all’universo brahmsiano.
Il caso ha voluto che la stessa sinfonia fosse stata eseguita nella stessa sala solamente pochi giorni prima, sotto la bacchetta di Christoph Eschenbach, direttore non meno sensibile e votato a un ideale esecutivo ben lontano dagli agguati del divismo. Il problema non è tanto quello di paragonare le due interpretazioni quanto di confrontare l’atteggiamento dell’orchestra nelle due occasioni. O meglio delle due orchestre, perché spesso ci si rendeva conto di avere a che fare con due compagini completamente diverse, almeno a giudicare dai risultati: al di là del carisma personale di entrambi i direttori, era evidente come gli strumentisti abbiano risposto anche in termini tecnici assai meglio alle direttive di Chailly che a quelle del pur eccellente Eschenbach.
Uno dei motivi di richiamo della serata era costituito dalla presenza del giovane Benjamin Grosvenor, ventiquattrenne pianista che è in carriera fin dall’adolescenza e che per vari motivi lo scrivente ha seguito – seppure attraverso le registrazioni sollecitamente inviate da amici britannici – fin dagli esordi nell’oramai lontano 2004. Che Grosvenor fosse già a quei tempi un pianista da tenere d’occhio non era difficile ammetterlo; più difficile è stato convincere coloro che hanno in mano la programmazione dei cicli di concerti più in voga a Milano, allo scopo di promuovere un recital che, fino ad ora, non ha ancora avuto luogo. Peccato, perché il pubblico ha nel frattempo perso la fase in cui un artista è meno condizionato dalla ricerca a tutti i costi di una individualità artificiale e tende a dare un’immagine di sé magari meno raffinata ma sicuramente più genuina.
Grosvenor è oggi un pianista al secondo stadio della propria carriera, che sa molto bene, forse fin troppo, il fatto suo e che è capace di minimizzare lo scarto tra la propria concezione ideale della frase musicale e la sua effettiva realizzazione sul pianoforte, ideale al quale si può dire ogni strumentista dovrebbe tendere. Nel Concerto di Liszt l’ancor giovane pianista ha messo in atto una lettura diremmo prettamente cameristica, lasciando da parte l’accento esagerato sulle ottave e sui passaggi di forza – peraltro rispettati integralmente – per porre l’accento soprattutto sui bellissimi dialoghi tra il pianoforte e gli altri strumenti dell’orchestra, elemento questo che è sicuramente uno dei motivi del grande fascino della partitura. Chailly ha assecondato molto bene questa visione, limitandone giustamente i possibili eccessi soprattutto in termini di squilibrio tra la voce non sempre squillante del pianoforte e l’intervento della grande orchestra ma il risultato, come a volte accade in Grosvenor, è sconfinato a volte in un manierismo che sottraeva qualcosa agli umori luciferini, al romanticismo estremo di questo Concerto.
Manierismo che si è fatto sentire anche nel bis, un capriccioso e allo stesso tempo soave studio di Moritz Moszkowski, ben noto agli estimatori perché inserito da sempre negli encores di Vladimir Horowitz. Tuttavia Grosvenor ha preferito sottolineare nelle ultime battute ancora la “maniera” di Horowitz al posto del segno originale del compositore, dando voce all’opinione secondo la quale certi piccoli gioielli del repertorio non possono vivere di vita propria ma solamente in quanto arrangiati, a volte con gusto discutibile, da certi mostri sacri della tastiera. Ritorni Grosvenor (e con lui la Wang, Lang Lang e tutti coloro che si ostinano nel gioco dell’imitazione) alla chiusura di quello Studio così come venne pensata dal compositore. Ciò che bisogna fare tesoro dell’esperienza horowitziana è il grado di coinvolgimento emotivo, il rischio dell’impossibile, il coraggio di mettere a nudo le proprie emozioni, almeno nella musica che si esegue. Tutto il resto, dalle scalette veloci dal suono impalpabile all’ottava scattante e colossale, è particolare che rimane racchiuso solamente nelle mani del defunto pianista, che va rispettato e riascoltato, mai imitato pedissequamente.
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