La nuova opera del compositore in scena a Venezia con successo: vero e proprio “divertissement”, non semplice farsa, ma opera di sofisticato spessore inventivo
di Cesare Galla foto © Michele Crosera
UNA SCOPPIETTANTE COMMEDIA DI EDUARDO SCARPETTA, ‘O miedeco d’e pazze, scritta all’inizio del XX secolo, considerata in certo modo “incunabolo” di una vasta e importante corrente di comicità alla napoletana, che ha dato frutti rigogliosi per decenni, fino alla grande stagione di Eduardo De Filippo. Un film molto popolare, firmato da Mario Mattoli, che quasi mezzo secolo dopo la commedia – nel 1954 – consegnava alle risate del vasto pubblico quella storia, allo stesso tempo offrendo una delle prove più convincenti di un altro sommo della comicità partenopea, il principe Antonio de Curtis, in arte Totò (ma nel cast leggi anche nomi come quelli di Nora Ricci, o di un giovane Aldo Giuffrè). E ora un’opera lirica, l’ennesima di Giorgio Battistelli, la cui vocazione drammaturgica è ormai rappresentata da un catalogo di oltre trenta titoli. Il suo Il medico dei pazzi conferma l’eclettica capacità del compositore laziale di assumere nel suo teatro per musica non soltanto un vasto ventaglio di genere nei soggetti, ma di farlo prendendo lo spunto dai “media” più diversi, nei quali oltre alla letteratura e alla prosa anche il cinema ha ormai un ruolo importante, almeno da quando nel 1995 ha portato sulla scena operistica Prova d’orchestra di Fellini, a cui sono seguiti Miracolo a Milano da De Sica (2007) e Divorzio all’italiana da Germi (2009).
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In questo caso, la sfida di Battistelli riguarda la possibilità della comicità pura nell’opera (e nella musica più in generale): una possibilità che era sostanzialmente ignorata, se non negata, dall’avanguardia dominante nel momento in cui il sessantatreenne musicista muoveva i primi passi, negli anni Settanta. Da allora, la “musica d’arte” ha vissuto una profonda metamorfosi che ha finito per restituire al gusto e alla soggettività creatrice il ruolo che i rigori strutturalistici avevano accantonato. E la retorica, come dice egli stesso, «appartiene solo al modo in cui un materiale musicale viene presentato. Non è affatto scontato che una triade maggiore lo sia più di un cluster, questo è solo un pregiudizio». Sdoganato in questo modo ogni tipo di linguaggio, Battistelli esprime una accattivante libertà di comunicazione e di pensiero anche in questa sua prova recente, che dopo avere debuttato in assoluto nel 2014 a Nancy, ha visto la sua prima italiana al Malibran di Venezia, ultimo titolo della stagione operistica della Fenice.
Musicalmente parlando, infatti, Il medico dei pazzi, si configura come un vero e proprio “divertissement” che aderisce con vena ironica e immediata forza espressiva al plot di Scarpetta, costruito su una serie di “tipi” napoletani che diventano loro malgrado i protagonisti del gioco degli equivoci in cui cade lo stolto Felice Sciosciammocca, indotto a credere dal nipote scialacquatore dei suoi beni che siano i pazienti di una casa di cura per malati psichiatrici, mentre sono semplicemente gli ospiti di una pensioncina a Mergellina. Il comico nella partitura di Battistelli (autore anche del sintetico libretto) risiede in tutti gli elementi dell’invenzione musicale. Il ritmo è spesso scatenato, qua e là anche ammiccante allo swing, comunque sempre vivace; il colore dello strumentale è multiforme, allusivo, ironico; la linea melodica è liberissima, mai dirompente nelle sue manifestazioni armoniche, mai banalmente tonale eppure mai eversiva e straniante. La scrittura vocale aderisce alla parola – in italiano e in napoletano – con l’immediatezza consentita dall’utilizzo di un canto che passa dal declamato al parlato per spingersi fino all’arioso senza mai chiudersi in forme precostituite o “classiche”. Del resto, una linea evidentissima dell’intento grottesco e parodistico di Battistelli sta nelle molteplici citazioni verdiane, da Traviata a Otello, che sono motivate dal testo e diventano, nella purezza subito contaminata con cui sono proposte, un ulteriore elemento di comicità.
Non semplice farsa, ma opera di sofisticato spessore inventivo, questa “azione musicale napoletana” raccoglie il consenso del pubblico, in tutte le repliche molto numeroso, con un’immediatezza che è il segnale di un ritrovato rapporto con la musica d’oggi, ben diverso dal gelo che accompagnava l’avanguardia, anche nelle sue migliori espressioni.
Al Malibran, l’esecuzione musicale ha visto il direttore Francesco Anzillotta ottenere dall’orchestra della Fenice una apprezzabile adesione alla stratificata qualità stilistica della partitura, con buone definizioni timbriche e adeguata duttilità di fraseggio. La folta compagnia di canto è sembrate partecipe e divertita, con disinvolte caratteristiche attoriali e controllo quasi sempre puntuale di linee di canto solo apparentemente semplici, in realtà non prive di difficoltà anche per la grande libertà di Battistelli all’interno delle tessiture di ogni singola parte. Da citare in particolare il tremebondo Felice di Marco Filippo Romano, il cialtronesco Ciccillo di Sergio vitale, la sussiegosa e insinuante Amalia di Milena Storti e la nervosa Concetta di Loriana Castellano, insieme con le caratterizzazioni sulla linea del grottesco di Maurizio Pace (Errico, violinista spiantato) e Filippo Fontana (Raffaele, aspirante attore drammatico).
L’opera è stata presentata in un nuovo allestimento firmato per regia e scene da Francesco Saponaro e per i costumi da Carlos Tieppo. Ambientazione anni ’50, dentro a una struttura su due livelli che consente di giocare fra interni ed esterni, suggeriti anche da gigantografie di paesaggi urbani o vesuviani; ritmo adeguato a quello della partitura, caratterizzazioni inclini al grottesco ma senza esagerazioni; Felice Sciosciammocca, il centro del meccanismo teatrale, proposto come Pappagone (Peppino de Filippo): stessi tic nervosi, stesso tipico ciuffetto, stessa ironia napoletana, impagabile espressione di straordinaria umanità.
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