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Bologna Modern, le direzioni della contemporaneità

di Giampiero Cane
28 Ottobre 2016
in XX e XXI
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Home XX e XXI
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Si è concluso il festival dedicato ai suoni del nostro tempo, realizzato artisticamente dal Teatro Comunale con la Fondazione Musica Insieme


di Giampiero Cane


UNA RASSEGNA di una mezza dozzina di concerti di musica soprattutto del Novecento, per la quale il Comunale di Bologna s’è alleato con Musica Insieme. L’hanno chiamata Bologna Modern, sottolineando con una a in meno l’estrema modernità del vecchio inglese; la cosa dovrebbe promuovere l’attività del Comunale, che “modern” non è da generazioni, usando la nuova sigla TCB, che avrebbe  lo svelto carattere Usa (e getta) del parlar per sigle. Ok? Ok, ma TDC andrebbe bene?

Comunque ci fosse stata una standing ovation al primo concerto cui abbiamo assistito, il secondo del calendari etto, sarebbero scattate in piedi come un sol uomo una cinquantina di persona, una qui, una là, smarrite nel vuoto. Forse non s’era sentita in città la diana suonata dalle grancasse del ponte di comando. O, meglio, per ottenere che un pubblico che non le richiede, non le conosce, non le ama accorra ad applaudire musiche che non capisce, che forse mai capirà, il sovrintendente del TCB dovrebbe far staccare col biglietto un buono-pasto e/o discoteca o comunque un qualcosa per farsi dire Si.

È naturale che ci sia una ragione pregiudiziale nel giudicare concettualmente in contrasto le idee di modernità e di tradizione. Le forme di comunicazione collettive che si fondano sul folk, cioè sulle abitudini anche espressive di un insieme, le credenze di una razza, un popolo coi suoi  usi, le costumanze,  non hanno nessuna possibilità, se non progetto mentale, di appartenere alla modernità. Intendo affermare che solo per beffa o mimesi, ma non per partecipazione si può prendere l’uso comune e pensare di usarlo per risolvere le problematiche dell’esserci oggi, in un tempo che non ha nulla a che fare con quel che abbiamo d’attorno, in uno spazio che è solo asservito ai resti medievali che opprimono di noia, con le favole tramandata da nonna in nonna, che rendono  ingrato l’abitabile.

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Ebbene, volendo impostare un programma musicale sulla modernità, con un colpo di genio nell’intorpidita Bologna, le TDC  hanno ideato il grande titolo di “Bologna Modern” (tanto valeva Boderna o qualsiasi altra “membrata” del genere) e poi l’han farcito di musica che volta a volta poteva essere giudicata più o meno favorevolmente, ma che non pareva aprire affatto per nulla a un’idea complessiva di modernità, stravolgere il moderno d’antan, la grande lezione degli Stockhausen, dei Messiaen, di Maderna, né tantomeno di Weill per aprire a un comprensione dell’oggi.

La prosecuzione del “genere” è implacabile:  tante le musiche che hanno una prima, quasi nessuna la ventesima. Personalmente incapaci di definire “il moderno”, la sensazione è però che si tratti di quel che è finito con una della due guerre del Novecento occidentale. Se della prima il moderno sarebbe finito con l’affermarsi degli strumenti di divulgazione di massa; se della seconda col premere sulla civiltà, contro la civiltà?, del mondo fino ad allora assoggettato o considerato assente. Certo questa seconda prospettiva era già stata aperta in parte dopo la prima, quando si assunse la musica post e neo africana come portatrice di un valore nella pratica d’oggi pressoché  scomparso che si chiamò jazz, ma, in sé, il jazz…?

Una sorta di disputa tra imitatori e stregoni originali, gente capace di suonar la cornetta coprendo col fazzoletto le dita che agiscono sui pistoni, per non farsi rubare la tecnica, per non dare materia per possibili “catture”, magìa nera. Nel tempo, poi una corsa, i neri a inventare nuove soluzioni, i bianchi a cercare di impossessarsene, fin dai tempi del dixieland. Oggi, gli uni e gli altri quasi tutti in fuga dall’arte, quasi tutti immersi nell’artigianato. Dopo i concerti circola un’aria da commissione d’esami; le premesse per fare un concerto, la tecnica, diventano il fine del concerto e han da essere il meno personali possibile. Forse Monk verrebbe rinviato a ottobre, forse, raccomandandogli una cura di ortodossia. A dar lustro particolare all’iniziativa è stato convocato come strumentista eccellente, il clarinettista di nome David Krakauer, definito nelle note-vasellina distribuite alla stampa “il più grande clarinettista kletzmer vivente, nonché eccellente sperimentatore delle nuove vie del clarinetto contemporaneo”. Quella designata dall’ultima parola è una categoria tutta da discutere: Lucio Dalla che anche lui suonava il clarinetto era molto divertente e creativo, non credo suonasse kletzmer, ma sperimentava al di là di un territorio fatto di vecchi vetrini che non dicono più nulla; aveva tecnica limitata, ma molta fantasia, il che a suo tempo lo fece preferire ad Avati, che pubblicamente non pratica più l’ancia da anni, e in seguito ad Arbore, napoletano di Foggia, o di Bari?

La respirazione circolare è ormai routine, l’uso delle basi e dell’amplificazione dichiara una connessione col mercato più becero, che non ha nulla a che fare con la sperimentazione. Inoltre, questa parola magica è di per sé priva di senso come lo è “riforma”, vecchia parola che dopo Lutero fu causa di grandi conflitti e danni. Oggi la usano i boy scout e il loro leader. Non saprei sinceramente cosa dire di uno sperimentatore che, nel dichiararsi allievo di Teschemacher, clarinettista degli anni Venti, tre i protagonisti del rinnovamento del jazz tramite candeggina, a sua volta allievo di Sidney Bechet a dire di questo Krakauer, finisce col suonare dei chicchi ricchi alla Volly  De Faut quale lo sentiamo in registrazioni dell’inizio degli anni venti (New Orleans Rhythm Kings e Mugsy Spanier). Bene, certo quella che forse fu l’ultima rivoluzione è stata nel 1789 e oggi non esistono più fabbriche di ghigliottine. Il quintetto, che in ditta ha il nome di Ancestral Groove, certo non era un dichiarato esempio di modernità, ma cos’era, con le basi elettroniche, i loop, l’amplificazione, tutte le teste in sala piuttosto immobili e solo quella di Krakauer che cercava di mettersi a punto come strapazzata? Lui cercava anche un po’ di eccitazione, ma senza di lui, i 4 restanti non andavano al di là di un Peppino di Capri, con un sound da tramonto pro club mediterranée, o anche caspiée che sia.

Marco Angius

Nella piccola rassegna bolognese di musica del ’900, praticamente finanziata dalla Fondazione Golinelli, un imprenditore nonagenario che frequenta abitualmente il teatro bolognese e che ha voluto dar vita a un centro di formazione e studi che s’occupasse più delle scienze naturali e astratte che dei “piaceri” della vita: arti, sport e moda – in questa piccola rassegna cui ha donato 20.000 euri, ha un certo peso, in quanto direttore di due concerti la figura di Marco Angius.

È un direttore che ormai s’è affermato per la qualità del suo lavoro. È figlio d’arte: suo padre a Bologna, negli anni Sessanta, dirigeva il coro del teatro e ricordo che ne aveva migliorato notevolmente la qualità sonora. Poi andò a Roma e personalmente non saprei dire dove e come continuò il suo lavoro. Il figlio Marco lo si è poi visto sul podio per Jakob Lenz di Wolfgang Rihm, di sicuro a Lugo e Bologna, ma forse precedentemente a Macerata. Forse a quest’impegno data una carriera poi tutta in positivo, anche se in Italia considerata di secondo piano: qui le grandi cose sono il festival di Sanremo, i Tre tenori, i Tre tenorini, la bacchetta direttoriale in mano a uno dei primi, cioè a Domingo.

Ha tutte le carte in regola per dirigere partiture anche assai complesse e difficili, tanto che un amico si augura che presto venga invitato per una Carmen o qualcosa di simile: spero di sì, per lui, ma spero che ciò apra solo una carriera secondaria per testi teatrali popolari, che tutti dovrebbero vedere una volta almeno, ma che sono ormai minestre come le Campbel.

A Bologna, nei suoi due concerti ha diretto il brevissimo Hommage di Kurtag, pezzo che finisce quando appena ci si è accorti che cominciava: 20 secondi sono troppi – un più lungo …e finisce già? di Haas, una novità di Alberto Caprioli, Ode alla luce, Verwandlung di Rihm, una Paraphrase dalla Nona di Beethven di Cehra, compositore che ha mise mano al completamento di Lulu.  Questo nel primo concerto; nel secondo L’Ideale lucente e le pagine rubate, novità di Sciarrino, IMAGES, prima di Martino Traversa, Nahe Fern n.1 di Rihm e Formel di Stockhausen.

Un programmone solido, importante, cui, per qualche pezzo sarebbe stata forse necessario approfondire o, nel caso qualche ora di preparazione in più. Intendo dire, per esempio che della pagina di Sciarrino non posso onestamente scrivere alcunché, perché ne ho sentito piccola parte a tratti, a volte figurandomi che ci fosse suono perché vedevo gli archetti in movimento (e non ho voluto credere che si trattasse dei vecchi esercizi di far correre l’arco sulle corde senza produrre sonorità) e da Traversa, con cui ne parlavo, mi son sentito spiegare che in partitura c’era un “pianissimo” con 5 p (una p è come “un po’ sottovoce”, 2 ancora un altro po’ eccetera), dopo questa spiegazione che non spiega nulla dirò solo che un direttore, che è il regista dell’allestimento sonoro, o affronta il problema di come far ascoltare quello sotto cui ci sono le 5 p, o lascia perdere, passa la mano a un altro, magari all’autore. Il pubblico, fatto di persone che sono a pochi metri dalla prima fila di strumentisti, ma anche a una ventina e più, teoricamente almeno, ché nella circostanza nei palchi opposti al palcoscenico e tantomeno in galleria non c’era nessuno – Il pubblico deve poter sentire dato che non si tratta di uno scherzo di Sciarrino su Tacet (aka 4’33’’) di Cage.

Non avendo mai sentito le due pagine di Caprioli e Traversa, conoscendo qualcosa d’altro di loro, la sensazione che ebbi dall’ascolto è che non fosse stata individuata, soprattutto per Caprioli, una chiave narrativa, che tutto scorresse compitato in maniera uniforme. Non saprei che dire, ma se la pagina è stata eseguita bene, allora avrà pochissima vita. Quel che ha scritto Martino Traversa mi sembra un po’ più vivace, nello spazio, nel colore. Ma ambo i pezzi non oltrepassano i confini della modernità, restano in un territorio che fu molto frequentato fino all’esplosione del minimalismo nel suo aspetto ripetitivo, non toccano la libertà indicata dal free, e sembrano dei bei campioni dell’utilità o inutilità del complicato.

A questo proposito è bene ricordare però come quest’aspetto fosse quello che caratterizzava i pezzi per pianoforte di Stockhausen (mirabili per scienza di costruzione, inascoltabili di fatto) finché non giunse a Venezia un certo Maurizio Pollini e ne fece ascoltare uno, forse il IX, che all’esecuzione durò più di un quarto d’ora meno del solito, e fu un’altra cosa: quella che adesso capita di poter ascoltare, magari un po’ pasticciata, ma con grande piacere.

Credo ci sia qualche programma che permette di accelerare – rallentare un’esecuzione senza variare l’intonazione. Se c’è si può provare a rallentare Cecil Taylor fino a sentire uno strano pianista post bop o, disponendo delle registrazioni di Caprioli e Traversa, accelerarle e valutare cosa e come cambia nell’insieme dei costrutti. Il piatto applauso che segue a qualsiasi cosa non ci dice più nulla. Magari ci fossero ancora i furori del Sacre. Oggi l’applauso dice: ho passato un po’ di tempo; non è male. Nient’altro.

Prima dei concerti, come una coppia di comici in vesti truffaldine, che so: Taranto e Totò – il Nicola Sani, sovrintendente del teatro, e il direttore si presentavano col moccoli di fronte all’inconsistente pubblico, per dire qualcosa. Il farlo forse discende dal pessimo insegnamento di Pappano e dal successo delle visite guidate: ti si dice che c’è qualcosa da apprezzare, e ti si da un misero perché. È tutto contro lo stimolo alla comprensione, è il precotto, il mangiare le stellette di un cuoco. Meglio la stravaganza individuale del coro che ripete “l’asino vola”.

Conversazione con Chomsky di Emanuele Casale. Il trio di DeJohnette

Dopo le tristissime giornate iniziali di Bolodern (mi sono fatto la mia fusion: due parole in una), sul finire del programmino della manifestazione, un accenno di condizioni più favorevoli s’è manifestato sia per il concerto di sabato 22, diretto da Tonino Battista, con musiche di Scelsi, Hosokawa, Perezzani, Oppo e Adams, al quale erano accorsi direi un 15 % di spettatori in più, facendoci  condividere i quasi 1000 posti del teatro con un’ottantina di persona; sia per il concerto di domenica sera, un concerto del trio formato da DeJohnette con Coltrane (Ravi, il figlio di John) e Garrison (Matthew, il figlio di Jimmy). Ci siamo chiesti se quest’ultima fosse una serata alla ricerca della conferma o smentita del detto “buon sangue non mente”. Qualcosa di quel che se ne poteva argomentare verrà più avanti di seguito.

C’è stata anche un’altra occasione di cui non abbiamo detto, e consisteva in una pièce molto trendy, in quanto multimediale di Emanuele Casale, dal titolo seducente di Conversazione con Chomsky 2.0, del quale non capiamo che voglia dire quel 2.0, ma non è un problema perché di stupidaggini di moda è pieno l’andirivieni delle cose dette nel mondo (ci accontentiamo di un 3000.6?). Non tanto era uno spettacolo un po’ sulle sue in quanto prodotto nell’Arena del Sole, anziché a Comunale, ma perché i giochini coi computer penso siano già estremamente più evoluti (o forse 2.0  significa d’antan, alla vecchia maniera o cose simili. Non saprei). Sincronie di improvvisi grappoli di segni e di suoni, colori e timbri, ma non secondo un piano, per esempio alla Cage per fermi capire un po’, e qualche elementare citazione di Chomsky nella sua riflessione politica anticapitalista e rivelatrice della tragica comicità della paranoia della politica Usa (e getta). Vecchio materiale fotografico acquisito e orrendi spezzoni delle immagini della insopportabile televisione (scrivo di qualità e non d’altro): Bush, la Thatcher, Reagan, Pinochet, Milton Friedman.

Non vorrei aprire un gioco sulle assenze, anche perché in un’oretta sui massimi sistemi della criminalità capitalista non può caderci che qualche nome e non più. Personalmente non ho seguito le ire e i furori (giovanili o no) dello scienziato, quindi non saprei se se la sia mai presa con leader politici cinesi, russi, vaticani, coreani, italiani o se riservi il regno del male a chi già possiede il regno del divertimento (cinema e tv). Comunque la fedeltà al suo pensiero politico è un optional per una pièce teatrale, della quale sottolineeremmo soltanto la blanda caratterizzazione del personaggio il cui nome è speso nel titolo.

Il concerto del sabato aveva a fondamento un paio di classici, Scelsi e Adams cui non basta una nota di recensione. Se li si vuol trattare hanno diritto a un altro rilievo. Il più divertente e teatrale nel muovere la musica diremmo sia tra gli autore presenti, Paolo Perezzani. Non conoscendo altro di lui, potremmo dire che quel che affascina è il teatro ella sua musica, un po’ come un tempo furono Busoni e per quel poco che ne ricordo Wolf-Ferrari, oggi un po’ accantonato. Questa sua Pieghe, dilatazioni ed altre dismisure dell’Aperto sembrerebbe un’ottima partitura per un’animazione, legando immagini e andamenti sonori che, astrattamente sembrano cercarsi.

Confesso la mia colpa, ma non ricordo d’aver incontrato mai il nome di Franco Oppo (1935-2016) un sardo, nuorese, che, sebbene da più di vent’anni frequenti l’isola per mesi, cercando le occasioni musicali che possono esserci, le cui musica non ho mai incontrato in quest’arco di tempo. Credo che le note nel programma di sala (brutto come pochi) siano state redatte dal direttore d’orchestra. Scrive di legame con le tradizioni musicali sarde, di visceralità del suono  e della presenza di un elemento melodico ancestrale. Dev’essere roba che serve ai sardi per pretendere uno statuto speciale per la regione: son soldi, ma non suonano una lingua particolare. Il suo Nadas diremmo abbia assai poco di vernacolare e lo tenga ben nascosto. È però musica tempestosa, vivace come un scrittura non commerciale del rock; la collocherei in prossimità di quella di Romanelli, ma poi sarebbe tutto da verificare.

L’ultimo concerto in programma era un po’ a disagio tra le musiche irregolari o incerte, cioè di ricerca, delle giornate precedenti. Si trattava di un concerto jazz assolutamente standard col percussionista Jack DeJohnette affiancato da Ravi Coltrane, il figlio di John, e da Matthew Garrison, il figlio di Jimmy. Forse a suo tempo l’attuale leader del trio, i due bambini se li è tenuti sulle ginocchia, oggi, cresciuti, lo fiancheggiano in tutta sicurezza nel produrre una musica da cui non ti aspetti sorprese, ma solo conferme.

Rispecchiano bene il procedere senza mai innovare della ECM, la discografica per cui hanno registrato il programma rimesso in scena al Comunale di Bologna. La riforma del blues da camera la casa produttrice l’ha fatta ormai da più di una generazione. Da allora continua più o meno sui suoi consueti binari che contengono poche varianti alla incantata staticità di cui si nutre. La parola magica, riforme, è servita, ma poi è tornata nel vocabolario e nella retorica dei sostenitori.

Il trio è condotto da un progetto un po’ schizoide, tale perché DeJohnette nel dividersi tra batteria e pianoforte porta in scena due personalità musicali assai distanti, quasi incompatibili.

È giunto al successo come batterista negli anni sessanta. Era un musicista in stile Blue Note, ma collaborò occasionalmente anche con Monk e con Coltrane. In seguito la sua fortuna / disgrazia: Davis, Jarrett, Metheny, Abecrombie e, infine il lavoro, alla fine dei settanta, per entrare nell’avvenire del jazz, in un territorio che verrà distrutto dagli organizzatori dell’attività musicale nel settore che si vedranno fuggire i musicisti verso l’arte e non sapranno cosa farci, se non impegnarsi interamente nel revival e nella banale imitazione dei passati che infanga l’attività attuale, parificandone i prodotti alla merce.

Si rattrappiva con la musica l’interesse, il brio degli ascolttatori. Oggi è come andare a messa, direi, o leggere I Sepolcri in una parafrasi scolastica. “Vero è ben, Pindemonte” ha un suo ritmo percussivo che non pervade l’ode com, invece, speso il ritmo di Manzoni (non nel racconto del diacono Martino, però). Ma perché DeJohnette si siede al pianoforte? Ezio Bosso (simpaticissimo pasticcione) è un virtuoso fantastico al suo confronto, e ha certo più idee. I concerti di jazz (ma anche d’altre musiche, tranne quella del Teatro Nō) sono così perversi che invitano il pubblico a trasformarsi in una commissione d’esame scolastico (in genere di basso grado): suona bene, ha tecnica, maturità- su questo il pubblico, il commissario s’interroga, non su cosa uno suoni, ma su come lo suona. Spogliato dalla possibilità di farlo in campo classico da Satie, nel jazz non c’è ancora arrivato. Non s’interroga su come suoni il pianista Thelonious Monk, che ha conquistato il suo diritto a suonare, ma “è strano”. DeJohnette non è strano, ma pianisticamente impantanato in un mondo che o è piano-bar o più semplicemente afasia.

Si è chiusa con questo trio la più noiosa escursione che si potesse pensare sulla musica del Novecento. Più per i modi con cui è stata condotta, però, che non per i contenuti. Ma anche qui ci sarebbe qualcosa da dire, perché il Novecento è troppo lungo e troppo distanti sono ormai certe musiche (Berg e Adams, per esempio) perché sia d’interesse trattarle nella medesima antologia.Il jazz, poi, musica imprescindibile nel cuore del secolo scorso, dà l’impressione di esistere ancora solo nelle registrazioni. 

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Giampiero Cane

Giampiero Cane

Dagli anni Sessanta critico musicale per quotidiani e riviste, collabora ancora oggi con il manifesto. Ha insegnato nell’Università di Bologna, avendo la cattedra di Civiltà musicale afro americana, ma coprendo per sei anni anche l’insegnamento di Storia della musica moderna e contemporanea. È autore di alcuni libri, tra io quali si possono ricordare Tre deformazioni dolorose: Sade, Rossini, Leopardi, Canto nero (sul free jazz), MonkCage (sul Novecento musicale Usa), e Confusa-mente il Novecento.

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