di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
Già l’esecuzione di entrambi i pianistici Concerti di Chopin in una stessa serata di per sé è evento raro; se a proporli poi, assecondato da una compagine del livello della Mahler Chamber Orchestra, c’è un pianista del calibro di Daniil Trifonov – tecnica infallibile e tanta sensibilità, di quei musicisti che non privilegiano l’aspetto esteriore e regalano emozioni incredibili – le premesse per un vero trionfo di pubblico ci sono tutte. Se sul podio sale un direttore e pianista egli stesso quale Pletnëv e se i due Concerti vengono insolitamente offerti nell’innovativa edizione per Compofactur Musikverlag, a cura di Pletnëv medesimo, ecco che i motivi di interesse salgono in maniera esponenziale. Tutto questo a Torino, per la stagione di Lingotto Musica la sera dello scorso 2 maggio 2017.
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Fin dalle prime note del Concerto in fa minore op. 21, il secondo, ma in realtà il primo ad essere stato composto, si è compresa la portata delle novità poste in atto. Una versione, quella proposta, che si avvantaggia, per quanto si è potuto arguire all’ascolto in mancanza di specifiche indicazioni entro le note di sala, di una nuova e assai più equilibrata strumentazione, con i fiati spesso bene in vista (a partire dall’attacco col clarinetto); ed ecco una quantità di dettagli messi a fuoco, interventi e contro melodie – parrebbe – inseriti ex novo, sicché il Concerto è parso come totalmente rigenerato. Trifonov poi, molto opportunamente e s’intende in pieno accordo col collega direttore-pianista-revisore, adotta tempi allentati ed un suono per lo più soft, cameristico, puntando su un delicato intimismo, attenuando i toni brillanti ed evitando atteggiamenti plateali, fiammeggianti. Sublime il cantabile ch’egli sa regalare nel tempo lento, appena qualche impennata nell’episodio coi contrabbassi pizzicati; indimenticabile il passo cadenzante che precede la ripresa e che Trifonov va come sillabando entro una ‘bolla’ timbrica evanescente e vaporosa, già quasi debussiana. Così anche il Finale: si presenta incorporeo e boffice, con quell’ultima parte leggerissima, quasi ‘volante’, dopo l’appello del corno e il viraggio nel modo maggiore. Sicché ne emergeva una dimensione Biedermeier.
Quanto al Concerto in mi minore op. 11 che si giovava anch’esso del make-up diPletnëv, ha preso l’avvio con passi felpati. Perfetto il rinnovato equilibrio tra i timbri orchestrali. Trifonov, invero, vi ha sfoderato alquanta più brillantezza, o quantomeno ha adottato un suono diverso, più nitido, perlaceo, a tratti traslucido (e anche l’orchestra si rivelava più corposa), marcando visibilmente in tal modo il divario tra i due Concerti che, pur essendo pressoché coevi, si presentano dissimili. Molto interiorizzato è apparso il Larghetto che Trifonov intende iridescente e rarefatto, quindi nel Finale egli evita (opportunamente) di gigioneggiare, come altri fanno invece senza pudore alcuno, affrontando la Krakoviak con una compostezza e un’eleganza che hanno del prodigioso. Applausi protratti, una vera e propria apoteosi.
Nei due bis Trifonov si è confermato interprete di vasta cultura, profonda sensibilità e raffinatissimo centellinatore di timbri. E allora, in piena coerenza con un programma solistico per intero chopiniano, ecco l’Improvviso-Fantasia op. 66 postuma, apparso come investito da una luce nuova, come del tutto inedito: dunque la prima parte eseguita con una leggerezza indicibile e senza quella smania di atletismo che altri pianisti invece sciorinano con compiaciuto (quanto fatuo) esibizionismo; poi la sezione cantabile d’un lirismo raramente emerso in tutto il suo nitore e costantemente re-inventato sul piano timbrico, e infine la ‘coda’ come alonata, quasi pre impressionista, insomma un’ulteriore lezione di stile. Da ultimo il n. 8 dalle Forgotten melodies op. 38 di Medtner, brano onirico dalle armonie post chopiniane che ben si saldava al resto del programma e con un unico apice emotivo al centro, nel quale ancora una volta Trifonov si è mostrato pianista dal controllo del suono (e delle dinamiche) a dir poco incredibile.
In apertura di serata si era ascoltata la Serenata per archi op. 2 del polacco Mieczyslaw Karlowicz: scomparso nel 1909 a soli 33 anni, travolto da una valanga sui monti Tatra, durante un’escursione, all’epoca – con Szymanowski – una delle personalità più in vista del panorama musicale polacco. Pagina pur gradevole e garbata – senza essere un capolavoro – che la Mahler Chamber Orchestra, grazie alla concertazione pulita e puntuale di Pletnëv, ha eseguito con impeccabile chiarezza. Si lascia ascoltare, invero senza incidere più di tanto e senza innescare troppe emozioni, semmai facendo un poco rimpiangere le omologhe composizioni di Čajkovskij e Dvořák. Bene l’arguzia e lo humour salottiero che Pletnëv ha distillato nell’Allegro d’esordio (virtualmente una Marcia), per poi fiondarsi nella Romanza che dapprima ‘tristaneggia’ vistosamente, facendosi poi rarefatta col bel tema del violoncello, effusivo e appassionato; del successivo Valzer, in bilico tra Coppelia e certo mondo slavo, Pletnëv ha ben colto l’innocua frivolezza, prima del garrulo Finale tutta superficiale esteriorità, salvo qualche striatura vagamente russa: peraltro eseguito dalla MCO con sobria eleganza e raffinata misura, sì da attenuarne alquanto la futile inconsistenza.
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