di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
Torino come Vienna o Salisburgo. Protagonisti assoluti Mozart, il geniale Da Ponte e la trilogia italiana. Già, perché parafrasando Calvino, «se una sera d’estate un viaggiatore» si fosse trovato a passare per il capoluogo subalpino, ecco che lo scorso 26 giugno 2018, al Regio si sarebbe trovato dinanzi alle sublimi Nozze di Figaro, con l’esperta Speranza Scappucci sul podio, una funzionale regìa (quella firmata nel 2015 da Elena Barbalich, ‘pulita’ e lineare, ancorché non banale, e pazienza per i inutili frugoletti apparsi ora sulla scena) e un cast di qualità. Non basta: la sera seguente, ecco il demoniaco Don Giovanni affidato alle cure di Daniele Rustioni e infine il 28 la scintillante partitura di Così fan tutte che il barocchista Diego Fasolis ha reso ancor più spumeggiante, moltiplicandone l’innarrivabile appeal. Un’impresa non da poco, coronare la stagione 2017/18 proponendo i tre titoli a distanza ravvicinata (con repliche ‘intersecate’ sino all’8 luglio in regime di sold out), sia pure riprendendo allestimenti già apparsi che, ciò nonostante, hanno regalato ugualmente emozioni.
Delle Nozze l’ipercinetica Scappucci – gesto incisivo e puntuale concertazione – ben assecondata dall’orchestra del Regio in ottima forma, ha messo in evidenza in special modo (ma non solo) il lato giocoso, fin dalla superba Ouverture affrontata con piglio energetico. Una lettura del tutto convincente, la sua, attenta ai dettagli e volta a porre in luce con gusto e raffinatezza le mille preziosità di cui è costellata la partitura ed a focalizzare con efficacia la differente psicologia dei personaggi (apprezzabile la scioltezza impressa ai molti recitativi ottimamente disimpegnati al fortepiano da Jeong Un Kim). Sicché tutto appariva fluido e improntato a gioviale naturalezza.
Se Simone Alberghini è stato un Conte a tutto tondo, capace di varie sfaccettature specie laddove la sua parte assume toni da opera seria (bene il suo «Vedrò mentr’io sospiro»), Serena Farnocchia (Contessa) ha saputo assumere accenti tra il languoroso e il melanconico regalando emozioni in «Dove sono i bei momenti», giù giù sino al catartico epilogo in cui la sua magnanimità giganteggia e il Conte le si rivolge con lo stupefacente «Perdono, Contessa perdono». Ha saputo peraltro rivelare anche accenti arguti nei momenti più squisitamente da commedia, ad esempio quando con Susanna è intenta a svestire e rivestire di panni muliebri l’imbarazzatissimo Cherubino.
Brioso ed eclatante il Figaro di Paolo Bordogna (applaudito il «Non più andrai farfallone amoroso», registicamente molto composto, idem per l’altro celeberrimo passo con tutta la sua carica anti aristocratica e di dirompente novità ideologica, ovviamente «Se vuol ballare signor contino»), spassosa Maria Grazia Schiavo, una Susanna piccante comme il faut bella voce, buona presenza scenica, bene le schermaglie con Marcellina, ironia e charme; un Cherubino nella parte quello di Paola Gardina sia pure con qualche eccesso di vibrato: applausi convinti per «Non so più cosa son cosa faccio» in cui si ammira la capacità di Mozart di intuire tutti i turbamenti e anche le angosce esistenziali di un adolescente, più ancora nel celeberrimo «Voi che sapete»; tra i comprimari un plauso a Manuela Custer (Marcellina), alla Barbarina di Mariasole Mainini e all’icastico Bartolo sbozzato da Fabrizio Beggi, arguto ma senza eccessi.
Le scene – iper realistiche, dai colori ora neutri e delicati (fango e celestino), ora ambrati, ora misteriosi (per il quadro notturno) con gradevoli sorprese (l’enorme lampadario), un bel gioco di piani sovrapposti ed altro ancora – sono di Tommaso Lagattolla che firma anche i costumi. La regìa – fedele all’ambientazione settecentesca – parte dall’idea di una ‘casa labirinto’ per il gioco dell’intrigo, e poi diviene sempre più astratta, muovendo bene i personaggi, senza smancerie, ma anche con tocchi di arguzia (per don Curzio e giardiniere), con qualche giusta velatura melanconica. Ecco allora spegnersi i lumi del grande lampadario all’entrata in scena di Barbarina che canta «Perduta, l’ho perduta» (la famigerata spilla): spesso il personaggio ha toni da ‘povera orfanella’, da ‘buona figliola’ cui allude il sound da commedia sentimentale, ma sappiamo bene come non sia interpretazione eccessivamente maliziosa quella di chi vede un’allusione esplicita alla perdita della… virtù da parte di Barbarina stessa, che verosimilmente si è ‘concessa’ al Conte. E in questo caso la regìa è riuscita a rendere al meglio quel mix di malizia, eros e mestizia che dalle poche battute del passo si sprigionano.
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Del Don Giovanni – offerto nel non geniale e ormai vetusto allestimento di Michele Placido risalente addirittura alla stagione 2004-05 e che continua a lasciare assai perplessi – Daniele Rustioni ha ben colto il côté pre-romantico, indugiando nei momenti topici, ma anche sbrigliando dove occorre: bei fraseggi, fin dall’Ouverture, suono appropriato e molto altro ancora. Emozionanti i due magistrali e superbi finali d’atto, orchestra eccellente (bene anche i complessi in palcoscenico), ottimo il coro («Giovinette che fate all’amore», atto I, scena VII, col coro delle contadine).
Opera difficile per la compresenza di aspetti giocosi ed altri drammatici, sublime ed inquietante, giocata su più piani che occorre trattare con millimetrico equilibrio, ha potuto contare su un cast mediamente di buon livello. Carlos Álvarez, ancorché misurato e composto, giganteggia nei panni dell’amorale protagonista; benino, ma non benissimo Erika Grimaldi (Donna Anna), qualche asprezza e qualche eccesso dinamico in Carmela Remigio (una donna Elvira un po’ sopra le righe), piacevolmente sorprendente il Don Ottavio di Juan Francisco Gatell, mercuriale e magnetico il Leporello di Mirco Palazzi: fin dall’iniziale e proverbiale «Notte e giorno faticar», ha strappato applausi convinti, soprattutto, ma non solo, nella celeberrima ‘aria del catalogo’, senza peraltro indulgere in gigionismi inutili o in eccessi, ottima Zerlina (l’andalusa Rocío Ignacio) alla quale teneva ben testa il Masetto di Fabio Maria Capitanucci e bene il Commendatore del basso Gianluca Buratto (con la caduta di gusto – pur tuttavia – della voce amplificata per la scena dell’apparizione del fantasma). Brividi nella scena cimiteriale e, come di norma la rassicurante ‘morale’ a fine opera.
Da ultimo val la spesa di riprendere ancora qualche considerazione sulla niente affatto memorabile regìa (peraltro filologicamente ripresa da Vittorio Borrelli che ha fatto del suo meglio per attenuarne certe irrimediabili manchevolezze), con le scene per lo più scure e i costumi un poco eclettici di Maurizio Balò, dove a prevalere sono una certa cupezza e un grigiore di fondo a cominciare dalla pesante cortina nera e oro di gattopardesca memoria, spesso semichiusa, salvo un prevedibile rosso fuoco per la scena ‘infernale’. La statua del Commendatore pare un angiolone più adatto a Tosca che al Don Giovanni, ma ora – per fortuna – non muove più meccanicamente le ‘ali’ (e almeno un effetto esilarante è stato eliminato); Don Giovanni abbarbicato che s’inabissa col movimento regolare e meccanico dei ponti mobili del Regio, più che far rabbrividire fa sorridere; e ancora, le caligini del cimitero, più alba lattescente che finale demoniaco, i goffi movimenti delle masse, troppo macchiettistici e caricaturali nella scena del ballo, in chiusura dell’atto I, quasi sabba da avanspettacolo. E soprattutto quei riferimenti alla Sicilia primo ‘900 che lasciavano perplessi già anni fa ed ora paiono ancor più banali nella loro ovvietà (non solo le agavi), a partire dal lenzuolo steso, allusivo ad ancestrali ritualità legate ad una sessualità mediterranea. Insomma ancora una volta un Don Giovanni a due velocità, da valutare su due piani: l’uno, quello musicale, di buon conio, l’altro, quello dell’impianto scenico e registico, da dimenticare. Definitivamente.
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Il vero e proprio clou con una superlativa edizione di Così fan tutte nella funzionale e ‘storica’ edizione con la regìa di Ettore Scola – una regìa che muove i personaggi con garbo ed un pizzico di maliziosa civetteria, come si conviene ad un’opera spigliata (ben ripresa da Vittorio Borrelli) – e con le pittoresche scene di Luciano Ricceri a far da appropriata cornice: scene realistiche e smaccatamente partenopee, con quella poetica visione marina sul porto dense di rimandi alle galanterie settecentesche nella complessità di ambienti, budoirs e salotti, entro un impianto di gusto ricercato, ma invero efficaci, al pari delle luci che esaltano per lo più la solarità degli esterni e la clarità degli ambienti; come del resto gli eleganti e curatissimi costumi di Odette Nicoletti dalle forti cromie (abiti azzurri per Dorabella e Fiordiligi, rosso cremisi per i due innamorati, color crema per il ‘filosofo’ Alfonso, eleganti perfino quelli della pimpante Despina). Evidenti le citazioni colte con allusioni al Palazzo del Vanvitelli di piazza della Carità e bella la simmetria nel disporre le coppie in giardino, con calligrafica e meticolosa puntualità, nella scena finto patetica del commiato. Un’opera – si sa – che gioca amabilmente sull’infedeltà femminile, certo, con ironia e levità, ma anche e forse ancor più sui luoghi comuni e sulle ‘certezze’ maschili, tant’è che si potrebbe riformulare il titolo in «Così fan tutti».
Tutto risulta perfettamente funzionale alla vicenda ed all’intrigo amoroso concepito dalla premiata ditta Mozart / Da Ponte (ogni volta che ci si imbatte in questo capolavoro non si finisce di ammirare la modernità del libretto: tra tutte una sola citazione: «far all’amor come assassine, e come fanno al campo i vostri cari amanti», esorta Despina, incline ad un esplicito e semplificato carpe diem, e pare il dialogo tra ventenni odierne, non troppo preoccupate da remore morali, per nulla restie a cambiare fidanzati nel giro di poco tempo). Così pure non ci si stanca ma di ammirare come Mozart abbia superato di slancio le convenzioni dell’epoca, sicché è davvero difficile restringere «Così fan tutte» al territorio pur prevalente dell’opera buffa. Ci sono allusioni all’opera seria in non pochi passi e recitativi, talora per burla (come quando le due ragazze si disperano e meditano di «immergere in cor l’acciar» per l’improvvisa dipartita degli amanti) e ci sono tratti sentimentali, lacrimevoli, soprattutto c’è una cura musicale estrema, nel dar rilievo, con una frase, un timbro, un dettaglio, anche a minime pieghe psicologiche del testo.
Diego Fasolis dal podio ha portato l’orchestra del Regio a vertici elevati, tenendo saldamente in pugno anche il palcoscenico ed enfatizzando i lati da opera seria che la partitura presenta: tra i passi sublimi l’impervia aria «Come scoglio» che Federica Lombardi (Fiordiligi) ha affrontato con una sicurezza impareggiabile. Le teneva ben testa Annalisa Stroppa (la sorella Dorabella). Fasolis si è rivelato abile nel rendere la trasparenza dell’effervescente partitura mozartiana, capolavoro di idee melodiche zampillanti come acqua sorgiva e soluzioni timbriche di soave grazia (i clarinetti trattati con impareggiabile sagacia) ed ha saputo imprimere il ritmo appropriato allo strumentale, specie ai recatitivi, apparsi sciolti e scorrevoli come non mai (ed è un vanto), e così pure alle voci, di fatto in simbiosi con la visione registica. Dei due protagonisti maschili ha convinto specie la prova del baritono Andrè Schuen (Guglielmo), se l’è cavata bene peraltro anche il tenore Francesco Marsiglia (Fernando).
Gran mattatori l’irresistibile Despina di Lucia Cirillo – assai convincente, sia sul piano vocale, sia pure quanto a presenza scenica, intrigante e astuta, protagonista di ben due travestimenti, prima in qualità di dottore deus ex machina, alla notizia del finto avvelenamento dei fidanzati e poi come notaio per la burla del falso matrimonio (magistrale la sua ‘morale’ scanzonata e allegra espressa nella spassosa aria «Una donna a quindici anni»)- ed il ‘navigato’ Don Alfonso del grande Roberto De Candia. È lui il vero motore della vicenda, distaccato, ma non cinico, disincantato, ma non scaltro, sostanzialmente ottimista e fiducioso nel trionfo dell’amore: e la regìa pone in luce soprattutto tali tratti. Ancora una volta tra i punti che hanno maggiormente destato emozioni il terzetto «Soave sia il vento», reso con naturalezza e scorrevole dolcezza, ben assecondando le simpatiche onomatopee poste in partitura da Mozart. Superlativi i pezzi d’assieme (primo e secondo atto), per resa scenica e vocale: pezzi d’assieme che già paiono preconizzare il Rossini dell’Italiana in Algeri, ormai dietro l’angolo.
Un plauso speciale al coro (ben istruito da Andrea Secchi per l’intera trilogia) e ai maestri al fortepiano (Gianandrea Agnoletto e Carlo Caputo in Don Giovanni e Così fan tutte oltre alla già citata Jeong Un Kim nelle Nozze) che nei molti recitativi svolgono un ruolo di assoluto rilievo, specie se – come è accaduto – sono resi con spigliata scioltezza.