di Luca Chierici foto © Bresci&Amisano
La messa in scena delle opere di Richard Strauss in Italia segue storicamente un percorso piuttosto tortuoso che si può comprendere anche solamente andando a considerare il reperimento dei libretti e degli spartiti stampati nella nostra lingua. Ci si accorge così che alcuni titoli come Die Ägyptische Helena (1928-1930) o Friedenstag (1938) sono comparsi molto raramente nella programmazione dei teatri perché scritti in un momento di transizione (l’Elena) o, nel secondo caso, perché rifiutati dall’establishment nazista in quanto anacronisticamente rivolti a celebrare un momento di pace all’interno di un contesto che più guerresco non è possibile immaginare. L’Elena, recuperata a Cagliari con successo nel 2001, non era mai stata rappresentata alla Scala, teatro che peraltro ha ospitato di Strauss, fin dai primi tempi, i grandi capolavori quali Salome, Elektra, Der Rosenkavalier, Ariadne auf Naxos, Die Frau ohne Schatten. Ma solo pochissimi titoli successivi vedranno la luce nel teatro milanese (Die schweigsame Frau nel 1936 e Daphne nel 1942) e solamente grazie al fatto che Strauss era stato nel frattempo (1933) nominato Presidente della Camera musicale del Reich. Bisognerà attendere Sawallisch nel 1970 per ascoltare Arabella e infine, in un miracoloso 1988, per ospitare gli allestimenti monacensi di Daphne, Die Liebe der Danae, e ancora Die schweigsame Frau. Mancano nel calendario storico della Scala i giovanili Guntram e Feuersnot, ma anche Intermezzo e Capriccio, assenze ingiustificate che speriamo trovino al più presto una smentita nelle future programmazioni.
Giunta finalmente alla Scala in un allestimento di grande pregio e sotto la guida di un direttore, Franz Welser-Möst, che ha colto felicemente il meglio di una partitura assai complessa, Die Ägyptische Helena ha riscosso un successo pieno, entusiasta, da parte di un pubblico non numerosissimo ma che si era dato convegno per rispettare un appuntamento davvero immancabile. Del resto la prima rappresentazione dell’opera a Dresda era stata commentata come “uno degli ultimi brillanti avvenimenti della Repubblica di Weimar, che fece accorrere in massa spettatori da tutta la Germania, dal resto dell’Europa e altrove”.
È necessario però ripercorrere, prima dell’ascolto, un doveroso cammino informativo che possa fornire le basi per una ricezione il più possibile “conscia” di quest’opera, comprese le premesse registiche che devono illuminarci sulla possibile lettura odierna dell’intricato libretto di Hofmannsthal. Lode innanzitutto a Sven-Eric Bechtolf per avere immaginato uno spettacolo raffinato ed elegante che si avvaleva delle bellissime scene di Julian Crouch e dei costumi di Mark Bouman. Bechtolf cerca di districarsi in un arrovellato gioco psicanalitico che ha come oggetto la fedeltà di coppia tralasciando innanzitutto gran parte dell’ambientazione originale e ponendo la massima attenzione sul ruolo della conchiglia onnisciente, una sorta di Oracolo che è continuamente consultato da Etra. La conchiglia, la cui immagine è in primo piano sulla copertina delle edizioni a stampa dell’Elena egizia, è qui trasformata – seguendo un’idea espressa dallo stesso Hofmannsthal – nientemeno che in una moderna radio (moderna per i tempi in cui l’opera venne messa in scena), ossia un bellissimo apparecchio a valvole, probabilmente copia di un magnifico modello della Philips (si scorgono le onde presenti nel logo della famosa casa costruttrice). L’enorme apparecchio occupa tutta l’estensione della scena e si apre scoprendo dietro le sue ante lignee in stile art-nouveau due ambienti distinti: nel primo atto un elegante salotto che rappresenta il palazzo di Etra, nel secondo le enormi valvole a vista della radio stessa, che vanno a contenere parte dei personaggi che spuntano dal deserto nell’atto secondo.
Ma per capire meglio le componenti principali del libretto di Hofmannsthal va ricordato come nella tradizione euripidea del mito di Elena si ipotizzi che la bellissima donna fosse stata trasportata in Egitto da Ermes per nasconderla presso il re Proteo, mentre il suo “doppio” rimaneva a Troia con Paride ed era la causa della guerra con Sparta. Ipotesi “moralistica”, invero, che scagionava Elena dalle sue colpe di tradimento. Elena incontrerà di nuovo il legittimo marito Menelao, naufragato sulle rive del Nilo, e avverrà poi il riconoscimento, che spazza via l’ombra della finta Elena rimasta a Troia. I due fuggiranno su una nave, sfuggendo all’ira di Teoclimeno, figlio del morto Proteo e pretendente della stessa Elena. Hofmannsthal dal canto suo riunisce le due Elene (la troiana e l’egizia, il fantasma e l’originale): la maga Etra accoglie nel suo palazzo Menelao, in cerca della moglie per sete di vendetta e inventa, per distoglierlo da questo proposito, la storia di una Elena egizia rimasta pura e fedele, servendosi anche di un filtro dell’oblio somministrato opportunamente all’eroe. Dopo una notte d’amore trascorsa in un palazzo ai piedi dell’Atlante, dove la coppia è stata magicamente trasportata da Etra, Elena affronta coraggiosamente la realtà e beve con Menelao un filtro della memoria che li riporta entrambi alle condizioni iniziali. Ma Menelao, come al termine di un lungo cammino psicanalitico di riappropriazione della verità, rielabora il proprio rapporto con la moglie e i due finalmente si riappacificano nel tripudio generale. Menelao si trasforma dunque da feroce eroe vendicativo a marito che perdona (tema centrale in Strauss, dalla commedia Intermezzo alla Sinfonia Domestica). Di più, Hofmannsthal si era spinto a comunicare a Strauss un ulteriore considerazione che rendeva universale e atemporale la tematica del tradimento di coppia: “Interpreti tutto come se fosse capitato due o tre anni fa in qualche posto tra Mosca e New York” (e Bechtolf puntualmente fa proiettare una immagine della Grande Mela attraverso un video di Josh Higgason). Lo stesso Strauss scrive inoltre che «Hofmannsthal fu il primo che osò portare a una definitiva conclusione morale … il problema di Elena e Menelao, che era stato evitato da tutti i poeti, persino da Euripide e dallo stesso Goethe». Un miracoloso sforzo di sintesi, che lo stesso scrittore così commenta: «È quanto ho fatto di meglio come poesia da musicare, come opera».
Va notato, però, che il tema della classicità, vista come contenitore di un mondo ideale che non esiste più, è fondamentale in Strauss e va comunque tenuto in debito conto. E non dimentichiamo che il futuro librettista di Strauss, Stephan Zweig, se non alla classicità, guarderà di lì a poco al Mondo di ieri (Die Welt von Gestern) con lo strazio e il rimpianto di chi vede l’avanzare della distruzione causata dalla barbarie nazista. L’ascolto dell’opera ci ha anche ricordato come sia evidente un certo dislivello tra la cervellotica ricostruzione di Hofmannsthal e quello che è il commento musicale, che si attiene alle linee guida principali della poetica straussiana. In breve, nell’Elena compaiono alcuni motivi conduttori tipici di gran parte dei lavori di Strauss, motivi che se da un lato hanno potuto giustificare nel tempo critiche a non finire per il loro utilizzo spregiudicato all’interno di collocazioni drammaturgicamente molto diverse tra loro, dall’altro ci accompagnano fedelmente in un ideale percorso di ascolto dell’opera omnia teatrale del grande musicista. L’ascoltatore che abbia in mente questi “invarianti” del linguaggio straussiano avrà riconosciuto, ad esempio, come certi commenti in tempo di danza vengono espressi attraverso una scrittura che richiama luoghi analoghi in lavori molto lontani da questa Elena (pensiamo in particolare al motivo di danza orgiastica che caratterizza il finale di Elektra) o che l’apertura strumentale dell’Elena sia in un certo senso molto simile a quella di Salome, o ancora che la marcia funebre che segue alla morte del personaggio di Da-ud offra una reminiscenza di un famoso motivo di Morte e trasfigurazione e addirittura della “danza dei sette veli” di Salome e della Verwandlungsmusik del Parsifal. E poi c’è il perenne ricorso alla risoluzione in modo maggiore di qualsiasi conflitto, un carattere tipico della poetica straussiana che può a volte lasciare perplessi.
Non si vogliono qui riaprire diatribe che hanno avuto peso soprattutto negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, ma vale la pena citare, per i lettori più giovani, che in un testo divulgativo molto popolare in quegli anni si leggevano frasi di questo tipo: “Strauss è rimasto nella storia della musica come il rappresentante più perfetto della società borghese di fine Ottocento. Egli va incontro alla vita con fiducia e sicurezza: accetta la tradizione per arricchirla consolidandola nello stesso tempo da un punto di vista tutto esteriore , e la sua musica rutilante di effetti è essenzialmente affermativa. Non c’è in lui nulla del dubbio, della ricerca, della problematica che caratterizzano l’opera di musicisti della sua generazione come Busoni, Mahler o Debussy…con la prima guerra mondiale e col mutarsi dei rapporti sociali nel mondo … Strauss rimane privo del terreno a lui più propizio, rimane isolato in mezzo alla generale aspirazione di rinnovamento, sordo ad ogni istanza critica, prigioniero del suo vecchio mondo guglielmino che nulla più potrà riportare a vita duratura …così la sua vena migliore si dissecca, e per circa un trentennio egli non farà che ripetere se stesso o cercare la via di una classicità insincera…”.
Parole molto dure e condivisibili solo in parte, che decretano oltretutto il termine dell’attività di compositore di Strauss (“quello destinato probabilmente a rimanere ancora per molto tempo”) addirittura al 1919 con la stesura della Donna senz’ombra. Giacomo Manzoni, autore di questa “Guida alla musica sinfonica” edita da Feltrinelli non cita affatto il grande lavoro compiuto da Strauss a fianco di librettisti come Hofmannsthal e Zweig, liquida in poche parole come “insincera” la classicità cui il musicista tende idealmente, ma non ha tutti i torti nel notare la ripetitività piuttosto sterile di certe formule compositive che vengono applicate a contesti teatrali del tutto differenti tra loro. Da anni oramai si è smontato il mito di uno Strauss edonistico, solamente interessato a scrivere bella musica, ben costruita, senza particolari insight nei significati dei testi. Ma il dilemma musicologico attorno alla figura di Strauss e soprattutto attorno alla sua produzione che va dal 1920 alla morte è tutt’altro che risolto, anche se pubblicazioni come il commentario critico in tre volumi di Norman Del Mar hanno contribuito, assieme ai saggi scritti in tutto il mondo in occasione delle rappresentazioni di quel repertorio, ad ampliare il contesto critico che vorrebbe fissare l’importanza di questa seconda parte dell’attività del musicista con argomentazioni che vadano al di là della piacevolezza di ascolto, del trattamento virtuosistico delle voci, della “solita” incredibile abilità nel dominio dell’orchestra. Del resto un commentatore non certo tacciabile di posizioni rivoluzionarie, il biografo, regista e storico straussiano Otto Erhardt, parlava apertamente dell’Elena egizia come di una partitura lavorata secondo “una capacità degna d’ammirazione” ma che “non manifesta la presenza della scintilla divina … la musica non scaturisce dalle profondità imperscrutabili dell’anima, e invece rimane quasi sempre nella superficie di una piacevole sensualità”.
Queste considerazioni che ci hanno portato forse troppo lontano sono inevitabili proprio quando si rinnova l’ascolto o si vede per la prima volta in teatro un lavoro importante come questa Elena, perché aiutano a giudicare in maniera più consapevole il valore di un manufatto musical-letterario che come dicevamo è assai complesso. Talmente complesso che i motivi di riflessione e di studio preparatorio all’ascolto dovrebbero proseguire considerando miriadi di altri dettagli, dal rapporto tra Strauss e Wagner alla differenza tra la versione di Dresda e quella viennese di quest’opera, dalla storia dei contributi registici alla ammissione dello stesso Strauss secondo il quale gli unici problemi che potevano dare filo da torcere nell’allestimento dell’Elena erano esclusivamente di natura registica e scenica. Tanto che la stessa versione viennese (e poi salisburghese) dell’opera nacque su suggerimento del direttore Clemens Krauss e del regista Lothar Wallerstein anche per ovviare a certe incongruenze dell’allestimento originale. Ma altrettanto importante è il tema dei rapporti tra Strauss e Hofmannsthal, soprattutto per ciò che riguarda un fraintendimento che probabilmente sta alla base della scarsa popolarità dell’ Elena egizia. Ossia del carattere parodistico che avrebbe dovuto originariamente caratterizzare l’opera, che invece viene musicata da Strauss attingendo quasi automaticamente alla sua vena drammatica più genuina espressa nei capolavori precedenti quali Salome ed Elektra. Insomma, non di un qualcosa simile all’Arianna a Nasso o al Cavaliere della rosa si tratta qui, come probabilmente avrebbe voluto Hofmannsthal con il suo gioco dei filtri e degli equivoci, ma di un dramma passionale che viene nobilitato dal compositore secondo percorsi espressivi in contrasto con quelli immaginati dal librettista.
Al di là della bellezza e dell’ingegnosità della apparato registico e scenico di questa Elena finalmente scaligera, e della elegante concertazione e direzione di Welser-Möst, rimane ovviamente da affrontare il tema delle voci che si ascoltano nell’Elena e che sono caratterizzate da estensioni e volumi fuori dall’ordinario, come quasi sempre accade in Strauss, estendendo in questo senso una indubbia eredità wagneriana. La protagonista è un soprano lirico-drammatico che deve padroneggiare una tessitura scomoda, ardua, che non lascia un minuto di tregua. In tal senso Ricarda Merbeth, forse non la migliore Elena possibile in termini di presenza scenica, ha assolto al proprio compito con grande mestiere e partecipazione ad un ruolo tutt’altro che facile anche dal punto di vista teatrale, dovendosi districare all’interno di un personaggio per definizione “doppio” o presunto tale. La resa dei momenti lirici tradizionalmente più scoperti, soprattutto il famoso Zweite Brautnacht che apre l’atto secondo, è stata del tutto all’altezza delle aspettative. Più involuto ci è sembrato il Menelas di Andreas Schager, che forse era più preoccupato della caratterizzazione del personaggio che dell’apporto puramente vocale. Non molto soddisfacente l’Altair di Thomas Hampson, dal quale forse ci si attendeva una migliore prestazione, mentre di grande spessore era l’intervento difficilissimo di Eva Mei, che ha dominato la figura della maga Etra con grande professionalità e senso artistico. Claudia Huckle era una severa e assertiva conchiglia-radio e Attilio Glaser si è distinto nel breve cammeo dello sfortunato innamorato Da-ud. Brave le cantanti dell’Accademia che vestivano i panni dei quattro Elfi e impeccabile il Coro istruito da Casoni e per l’occasione sistemato nei palchi di proscenio.