di Francesco Lora
Nel 2007 Michele Mariotti dirigeva Simon Boccanegra al Teatro Comunale di Bologna: era la sua prima lettura di un’opera di Giuseppe Verdi, e la prima volta che inaugurava la stagione felsinea; ventottenne, dimostrò di aver già stoffa da vendere per il ruolo di direttore musicale, guadagnato nei fatti prima ancora che nel titolo.
Per quattordici anni da allora, tuttavia, non è più tornato a quella partitura fino alle due esecuzioni degli ultimi 9 e 16 ottobre, in forma di concerto, nel Teatro Regio di Parma, per il Festival Verdi; ed è stato un Simon Boccanegra ristudiato dalle fondamenta, circa il quale non ha più nemmeno senso il confronto con i ricordi: il secondo è infatti non l’evoluzione del primo, ma una sua autonoma e ponderata alternativa. Non devono ingannare quel braccio e quel viso che, nei gesti e nelle espressioni, abbadeggiano (claudioabbadeggiano) apertamente, né l’uso di aggettivi che potrebbero altrettanto bene suscitare fantasmi scaligeri di una quarantina d’anni fa: il nuovo Simon Boccanegra è solo di Mariotti, e non mira a far sensazione a ogni costo. Non è clamoroso: è morbido, sommesso, trepidante, proteso in avanti, con continue fluttuazioni dinamiche entro una gamma intenzionalmente ristretta, dove si sconfina assai di rado in un vero fortissimo e dove piuttosto si gioca di addensamenti contro rarefazioni; sussiste di atmosfere timbriche ed equilibri fraseologici che davvero definiscono ambienti e accolgono psicologie; manifesta la consapevolezza del pregio sinfonico della partitura, ma, all’italiana, non dimentica di porre le ragioni del canto in primo piano sullo scalpitio dell’orchestra. E l’orchestra e il coro sono, ora come allora, quelli del Comunale di Bologna, e ora come allora conseguono, con Mariotti, più che con qualsiasi altro concertatore.
La compagnia di canto incuriosisce, già alla lettura della locandina, per la lussuosa formazione unita alla palese disomogeneità. Intorno a Mariotti, nondimeno, tutti si sforzano di armonizzarsi, rendendo quasi credibile questo metaforico pranzo dove lo chef serve poenta e osei assieme a paella valenciana, e sanguinaccio dolce assieme a sushi e sashimi. Il discorso è chirurgico già intorno al baritono nella parte del protagonista, il russo Igor Golovatenko, che per giunta sarà Jago nell’Otello inaugurale del San Carlo di Napoli, anche lì sotto la direzione di Mariotti. Ha colore vocale piuttosto chiaro ed emissione squillante, con facilità a muoversi nel registro acuto anche a fior di labbro; si compiace di un legato a lunga gettata e indulge positivamente al piano; proprio per mettere al sicuro le virtù del legato, però, dovrebbe curare meglio la prosodia italiana, al momento poco fluida e falsa già nella fonetica, con quelle l e quelle r di liquidità slava e non latina, quelle i che diventano puntualmente delle e e quelle o spalancate anziché raccolte. Soprattutto, Golovatenko risulta fuori parte: non attua alcuna differenza di caratteri tra il giovane corsaro del prologo e l’anziano doge di venticinque anni dopo; agisce invece come un dandy sofisticato, elegante, viziato, alla Evgenij Onegin: modi che potrebbero forse essere estesi a un Conte di Luna o a un Marchese di Posa, ma non a un padre verdiano. Fuori parte è anche la statunitense Angela Meade come Amelia Grimaldi, ma fa bene ascoltarla anche qui, come un fenomeno della natura, con quel suo fiume di voce fatto per prevaricare la duttilità espressiva, con quel vibrato d’ampiezza proporzionale alle tonnellate di suono esplose in spazi areniani e con quella prontezza, tuttavia, a volatilizzarsi in pianissimi non meno congeniali e tecnicamente garantiti.
Il punto di riferimento per l’idiomaticità dello stile – una vicinanza scomoda per i colleghi non italiani – è come al solito Michele Pertusi e, nel caso specifico, il suo Jacopo Fiesco. L’approccio alla parte appare ricalibrato rispetto agli incontri precedenti: il Fiesco di Pertusi è qui più introverso, meditativo, spirituale, come un Padre Guardiano dato in prestito all’opera vicina, dunque forte di uno spessore ieratico, anzi monastico, pur non perdendo l’orgogliosa, granitica, patrizia forza assertiva della parola. Sul fatto che tutto sia cantato da dio non ci si sofferma nemmeno. Vanno invece fatte le presentazioni di Riccardo Della Sciucca, ventottenne tenore del quale da tempo si dice ogni bene possibile, relegandone però le doti in parti secondarie: Gastone nella Traviata, il Messaggiero in Aida, al massimo Cassio in Otello. Ascoltarlo come Gabriele Adorno ne illustra finalmente le non comuni facoltà: timbro vivido, maschio e nobile, tecnica ortodossa e proprio per questo più esposta ai granelli di sabbia, linea vocale limpida e forbita, accento fiero e appassionato, dizione che non fa perdere una sillaba, personaggio giovanile ma coscienzioso, porgere un po’ rigido e intonazione qui e là vacillante per mera, veniale, palpabile emozione. Protervo, sottile, viscido, perverso nell’esprimersi, il Paolo Albiani di Sergio Vitale è ottimo in sé e tanto più per il sapersi differenziare in ogni aspetto, senza strafare, dall’altro e protagonistico baritono. Puntuali Andrea Pellegrini, come Pietro, e Federico Veltri, come Capitano dei Balestrieri, mentre dalla ritrovata missione filologica del Festival Verdi ci si aspetta con crescente urgenza la riproposta della prima versione di Simon Boccanegra, quella del 1857, inferiore a questa del 1881 ma chiave per l’evoluzione del linguaggio verdiano.