L’Antoniano, che è per tutti gli italiani la casa dello Zecchino d’Oro, in questi giorni assiste alla pacifica invasione dei bambini che affollano da alcuni anni BabyBofè, rassegna di musica classica per i più piccoli ideata dal Bologna Festival
di Andrea Bellini
In una fredda, ma non troppo, ultima domenica d’Avvento, BabyBofè è diventata l’alternativa per tutti coloro che, anziché trascinare i loro figli in snervanti tour in caotici centri commerciali al fine di acchiappare l’ultimo indispensabile cadeau natalizio, hanno optato senza rimpianti per lo spettacolo intitolato Americano a Parigi. All’Antoniano, luogo ormai legato indissolubilmente ad una programmazione per l’infanzia, stavolta anche i grandi non si sono annoiati di certo.
Per la data che ha aperto l’edizione in corso, infatti, il gruppo di teatro per bambini FantaTeatro, che è il motore che anima il progetto di BabyBofè, ha proposto uno spettacolo a più dimensioni, congegnato apposta per solleticare appetiti diversi. La sceneggiatura, estrapolata dall’omonimo musical diretto da Vincente Minnelli nel 1951, a sua volta liberamente ispirato dalla composizione omonima di Gershwin, è opera dell’abile Sandra Bertuzzi, che ha curato anche la regia, ed è una storia tutta americana con tinte nostalgiche di stampo bohémien, in cui i protagonisti, amici artisti un po’ strampalati, vengono travolti, loro malgrado, nel turbinio e nelle passioni della metropoli francese, vitale e caotica.
D’altronde, è proprio la musica di Gershwin che ha un respiro metropolitano, non importa se fu scritta a Brooklyn, e che galleggia a mezz’aria in modo astuto ed affascinante tra la classica ed il jazz, e che in qualche modo segue i passi del viaggio del compositore – da turista non troppo per caso – nella famosa tournée in Europa, a passeggio per i boulevard tra clacson di taxi sfreccianti e sfavillio di luci di caffè e bistrot. Le note della Rhapsody in Blue e di alcuni classici songs del newyorkese (Someone to Watch Over Me, Lady Be Good, Fascinating Rhythm, The Man I Love, ecc.) fanno da corona al pezzo eponimo e ne consacrano la sempre attuale bellezza, “evergreen” si diceva una volta, di musica senza tempo, che infatti strappa consensi dai più piccoli ai loro genitori o ai nonni, anche a chi non è avvezzo alle sale da concerto.
Sulle note del famoso glissato della Rhapsody, prende vita l’ennesima versione del trittico amoroso: lui, Jerry Mulligan, pittore avvenente che non ricambia l’amore per una ricca americana appassionata d’arte (Milo Roberts) che investe sul suo (presunto) talento, ed invece s’innamora, ricambiato, di lei, Lisa Bouvier, una bella orfanella parigina che, ingenua, vuole sposare colui che l’ha salvata da una triste vita, che non ama, ma a cui deve gratitudine, appunto l’altro, Henri Baurel, impresario parigino (molto americanizzato anch’esso) venditore di spettacoli circensi a yankee sprovveduti. E colui che rimane fuori del terzetto, ma ne è spettatore incolpevole, americano anch’egli, Adam Cook, pianista perennemente alla ricerca del successo, uomo di buon cuore e amico di entrambi i contendenti, che alla fine rimetterà le cose al suo posto, come un deus ex-machina, facendo sì che Henri si faccia da parte a favore della coppia Jerry-Milo, perchè «non c’è maggior sciagura di un uomo che ama senza essere riamato» come vuole il più classico degli happy end.
La scena, volutamente essenziale ma ricca di suggestioni, dove si ricreano le atmosfere dei bistrot e dei boulevard affollati, è impreziosita dagli sfondi non di cartapesta ma eseguiti con la tecnica della sand-art affidata all’estro ed al talento del light-artist Massimo Ottoni. Regista d’animazione e di videoclip, è stato il primo italiano a presentare al pubblico nel 1998 questa tecnica che consiste nel disegnare in estemporanea, seguendo il farsi teatrale, con una macchina che proietta dietro gli attori la sua “pittura” fatta di sabbia e di colori. Da anni collaboratore di musicisti e attori (da Riondino a Bollani, da Bergonzoni a Roy Paci), Ottoni utilizza tecniche espressive diverse, tempere e perfino alimenti, e questa creazione di immagini in real time ben s’integra al teatro ed alla musica, e anzi ne moltiplica i livelli di lettura. Ne derivano alcune soluzioni di grande effetto, come quando Jerry mulina le mani in aria mimando l’atto del dipingere e sullo schermo, creato dai giochi di sabbia, si materializza un “dipinto”, o come, in un momento precedente, vi è una sorta di “fermo immagine” dal sapore cinematografico sulle note sincopate di Embraceble You con l’ingresso, mentre tutti sono immobili in scena, di una ballerina (Priscilla Gennari), presenza muta che sembra sussurrare qualcosa a quelle anime frenetiche ed ai loro corpi pietrificati, altro elemento di forte suggestione che fa da controcanto alla storia; o come, sempre con tutti i personaggi in scena, quando in un ralenti ben congegnato (sulla splendida The Man I Love) Adam fa il pagliaccio tenendo lontano Henri mentre Lisa e Jerry si scambiano un addio che sa di fine della storia e che invece è solo il preludio al vero “The End” dell’amore legittimo che su tutto trionfa.
Alla fine di questo spettacolo, solo all’apparenza “piccolo”, che ci fa ridere, commuovere, applaudire, perfino ballare assieme agli attori sulle note conclusive di I Got Rhythm, non possiamo non renderci conto di essere di fronte ad un piccolo grande miracolo, quello di veder riunite tre (o forse più) generazioni sotto il segno di un comune denominatore, la musica di uno dei più luminosi e geniali, seppur controverso, creatori di emozioni in musica del ’900, snobbato da molti critici di varie estrazioni, al contrario osannato dal pubblico di tutto il mondo occidentale (e forse oltre) da quel primo trionfo della Rhapsody nel lontano 1924 fino ai giorni nostri. È paradossale che colui che in qualche modo tentò di dare dignità ad una musica reietta per il sofisticato, ma sostanzialmente refrattario al nuovo che avanzava, pubblico bianco americano, dandole un respiro sinfonico, si sentisse sempre inadeguato e non sufficientemente “colto” per ambire all’assise dei Grandi.
Infine il pubblico: nei momenti che chiamano l’applauso a scena aperta e la risata più sincera dei più piccoli (un numero di un giocoliere-acrobata, la fisicità prorompente e l’enfasi mimica dei due amici americani), ma anche in quelli più teneri e malinconici, con gridolini ed anche qualche lacrimuccia, alla fine a loro, ai bambini, è dedicato tutto questo lavoro; e se ciò avviene significa che si è raggiunto l’obiettivo, avvicinare ed incuriosire un pubblico sicuramente ricettivo ma che ha pochissime occasioni (e questa è sicuramente una) per avvicinarsi alla musica in modo formativo, sempre più importante in un mondo che non può ignorare l’arte dei suoni e l’abitudine all’ascolto.
E se ciò è possibile lo si deve all’impegno di questo gruppo di attori ed al talento della giovanissima pianista Pina Coni, che, fintamente nascosta dietro lo strumento, è anch’essa elemento di movimento e di distensione del momento teatrale.
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